Il prof. Mario Pianta insegna Politica economica all'Università di Urbino ha scritto un interessantiso libro su quanto è accaduto alle famiglie italiane negli ultimi dieci. Siamo in presenza di un impoverimento delle condizioni materiali che nel passato non si era mai determinato. Questo non per colpa di un destino cinico e baro ma per scelte economiche e finanziarie che hanno contraddistinto questi ultimi anni anni.
Il professore indica, infine, alcune soluzioni per uscire da questa situazione.
Pubblico del libro l'introduzione, un estratto del terzo capitolo e un articolo bnel quale viene esaminata la politica economica del governo Monti.
Introduzione
Quasi tutti gli italiani stanno peggio
di dieci anni fa. Questo libro spiega quanti siamo – all’incirca nove su
dieci – e perché siamo scivolati in basso in termini di reddito,
condizioni di vita, disuguaglianze. Spiega che cosa è successo
nell’economia e nella politica, suggerisce una via d’uscita. La scena,
nel primo capitolo, è disegnata dalla finanza e dall’Europa. Si
ripercorre l’illusoria ascesa della finanza, che ha portato al crollo
del 2008 e alla recessione del 2012. E si ripercorre la storia recente
dell’integrazione europea, che ha portato al mercato e alla moneta
unica. Liberismo e finanza sono stati i pilastri di un progetto europeo
che ha dimenticato i problemi della convergenza tra le economie, di come
governare i mercati, di come procedere con l’integrazione politica e
mettere un po’ di democrazia nella costruzione europea. Il risultato è
stata la paralisi dell’Europa di fronte alla crisi del debito pubblico
(e privato) apertasi nel 2010 con le difficoltà della Grecia ed estesasi
via via a Irlanda, Portogallo, Spa
gna, Italia e altri paesi. Per l’insistenza della Germania, l’Unione è oggi dominata da politiche di austerità che rischiano di portare l’Europa a una nuova grande depressione.
gna, Italia e altri paesi. Per l’insistenza della Germania, l’Unione è oggi dominata da politiche di austerità che rischiano di portare l’Europa a una nuova grande depressione.
La traiettoria italiana è al centro del
secondo capitolo. Un declino fatto di perdita di capacità produttiva,
minore e peggiore occupazione, salari più bassi. Siamo stati
protagonisti del “miracolo” di far diminuire per dieci anni la
produttività del lavoro: non era mai successo in un paese moderno.
Facciamo sparire i capitali dalle imprese, ignoriamo la ricerca e
l’innovazione. In mercati più aperti, cerchiamo di essere competitivi
con i paesi emergenti abbassando i salari e rendendo precario il lavoro.
Vincolati dal cambio dell’euro, importiamo di più ed esportiamo di
meno, e finanziamo il deficit corrente con afflussi di capitali che ci
rendono ancora più fragili. In questo modo – ed è un altro “miracolo” –
la politica e l’economia italiana hanno fatto crescere i profitti e le
rendite più che in Europa. Redditi e ricchezza si sono concentrati nelle
mani di uno su dieci, come mostra il terzo capitolo. Il reddito di uno
dei 38 mila “straricchi” (lo 0,1% più ricco del paese) vale oggi quello
di cento poveri che rientrano nel 10% più basso nella distribuzione. E
la ricchezza di uno dei dieci più ricchi d’Italia vale quanto quella di
trecentomila tra i più poveri. Nove su dieci sono invece i “perdenti”,
divisi in mille modi – tra uomini e donne, tra vecchi e giovani, tra
italiani e immigrati, tra Nord e Sud – ma uniti dall’impoverimento e
dalla caduta delle prospettive. I modi in cui questo è avvenuto sono
molti e complessi: passano per i cambiamenti nelle tecnologie e nella
globalizzazione, per le “riforme” del mercato del lavoro che hanno
portato a salari più bassi e più precarietà, per l’indebolimento dei
sindacati e per i tagli nelle politiche di redistribuzione. Come è
potuto succedere tutto questo? Togliere ai poveri per dare ai ricchi,
rendere il lavoro più debole e il capitale più forte è da trent’anni
l’orizzonte del liberismo, e nell’Italia del berlusconismo (ma anche dei
governi di centro-sinistra) questi sono stati i risultati.
Per un’economia fragile come la nostra,
lasciar fare ai mercati ha voluto dire innescare un circolo vizioso dopo
l’altro. Capitali che non investono, settori avanzati che scompaiono
insieme ai “buoni” posti di lavoro, produttività che cade quando si
diffonde il lavoro precario pagato poco, la crescita che scompare. Sul
fronte estero, una competitività in discesa, i conti in rosso e un
potere crescente di grandi imprese straniere e finanza globale. Nei
conti pubblici, l’ossessione di ridurre le imposte e la tolleranza per
un’evasione fiscale record (con un condono dietro l’altro) hanno portato
a nuovi deficit e a maggior debito pubblico; con l’emergenza del 2011
si sono imposte politiche di austerità che richiedono nuove strette
fiscali e aggravano la recessione. In questo, il governo “tecnico” di
Mario Monti non si discosta dalle traiettorie delle politiche economiche
passate. In questi anni abbiamo visto – in Italia e in Europa – un
ulteriore “miracolo”: una politica che tutela i privilegi di pochi – uno
su dieci – ma riesce ad avere abbastanza consenso da vincere le
elezioni, anche nel mezzo di crisi e recessione, spostando l’Europa
ancora più a destra. E’ il blocco sociale della depressione, che si
irrigidisce nel liberismo più ideologico, alimenta nazionalismi e
razzismi, minaccia di lacerare l’Europa come negli anni trenta.
Ci meritiamo un altro futuro: evitare
una grande depressione, costruire un benessere sostenibile, avere
un’economia più giusta. Il quarto capitolo propone questa via d’uscita,
partendo dalle proposte, esperienze e pratiche che si sono moltiplicate
in Italia e in Europa. Serve una nuova politica, un blocco sociale che
unisca i nove su dieci, un progetto alternativo di egemonia, un
programma di politiche che facciano cambiare strada all’economia.
Estratto del terzo capitolo
Il reddito di cento poveri vale quello di ciascuno dei 38 mila
italiani più ricchi. E ci vuole la ricchezza di trecentomila poveri –
persone che rientrano nel 10% degli italiani con meno risorse – per
uguagliare il patrimonio di uno dei dieci italiani più ricchi. Nel 2010
la ricchezza netta totale degli italiani era stimata in 9.500 miliardi
di euro, ed è cresciuta moltissimo: oggi (a prezzi costanti) è sette
volte e mezza in più del 1965; il tasso di crescita è stato del 4,7%
l’anno, un record a confronto con il ristagno del reddito complessivo.
Divisa per il numero di italiani, farebbe una ricchezza del valore di
143 mila euro a testa. Quasi due terzi della ricchezza sono beni reali
(come gli immobili), il resto sono attività finanziarie, mentre i debiti
rappresentano il 9% delle attività complessive. Fino al 1985 la
ricchezza netta italiana non era molto superiore al Pil: la crescita dei
redditi andava di pari passo con quella della ricchezza. Da allora, il
gonfiarsi di attività finanziarie e immobiliari hanno portato la
ricchezza italiana a raggiungere un valore di 5,7 volte il Pil nel 2009
(4,5 volte se sottraiamo il debito pubblico); tra 1985 e oggi questo
rapporto è raddoppiato.
Le disuguaglianze qui sono molto forti. Il
10% delle famiglie più ricche possiede quasi il 45% della ricchezza
totale, mentre riceve il 27% del reddito. Il 50% delle famiglie più
povere dispone di appena il 10% della ricchezza totale. All’estremo
vertice della piramide, i dieci individui più ricchi posseggono una
quantità di ricchezza pari a quella dei tre milioni di italiani più
poveri In media, la ricchezza di uno di questi italiani che guidano la
classifica dei “super-stra-ricchi”, vale quella di trecentomila italiani poveri. Un dato da paese feudale.
A
quali gruppi sociali va la ricchezza italiana? Se poniamo pari a 100 la
ricchezza familiare netta media del paese, vediamo che il gruppo
professionale dei dirigenti presenta un valore medio pari a 246 (in
crescita negli ultimi dieci anni), i professionisti sono a 203 (in
aumento dopo il 2000), imprenditori e autonomi hanno valori pari a 153
(in calo). Il declino dei ceti medi si vede con la posizione degli
impiegati, che hanno ora livelli di ricchezza inferiori alla media, pari
a 95, mentre nel 1993 i loro patrimoni erano pari al 106% della media
nazionale. I veri “perdenti” sono gli operai, che nel 1987 avevano
proprietà pari al 62% della media degli italiani, e ora dispongono solo
del 44%. Che l’Italia sia sempre meno “un paese per giovani” si vede
anche dalla distribuzione per età; i “perdenti” rispetto al 1987 sono in
tutte le fasce di età fino ai 54 anni, tutte con valori medi
della ricchezza inferiori alla media nazionale. Per i giovani fino a 34
anni l’impoverimento è nettissimo: si passa da valori pari all’83% della
media nazionale nel 1987 al 62% nel 2008.
Se ci concentriamo sui
patrimoni finanziari, nella media degli anni 2000-2008 la ricchezza
finanziaria netta delle famiglie italiane è pari a 1,6 volte il Pil, più
alta di tutti i maggiori paesi europei, Gran Bretagna compresa;
Francia, Germania e Olanda hanno valori intorno a 1,2 volte il Pil. Le
dimensioni di questa “potenza finanziaria” delle famiglie italiane,
relativa agli altri paesi europei, sono sorprendenti. I flussi di
risparmi si sono notevolmente ridotti in Italia, ma negli altri paesi
erano da tempo inferiori. Che cosa ha tenuto in alto i livelli di
ricchezza finanziaria nel nostro paese? La domanda giusta è “che cosa
non li ha trascinati in basso?”. E la risposta è il debito privato.
Nel nostro paese, di fronte alla caduta dei redditi reali di nove su dieci degli
italiani, i consumi sono stati sostenuti prevalentemente da una
riduzione dei risparmi; il ricorso al debito privato è salito, ma resta
molto distante dalla situazione degli altri paesi europei. In rapporto
alla ricchezza finanziaria delle famiglie, il debito delle famiglie è
passato dall’11% del 2000 al 16% del 2008. Negli stessi anni la Francia
passava dal 28 al 30%, la Gran Bretagna dal 22 al 40%, la Spagna dal 30
al 50%. In controtendenza, ancora una volta, solo la Germania, che ha
visto il debito ridursi dal 42 al 32% della ricchezza. Ecco una notizia
importante per l’Italia: la minor diffusione della finanza nella vita
delle famiglie ha ridotto la fragilità dell’intero paese, e limitato gli
effetti negativi delle oscillazioni di Borsa; la ricchezza delle
famiglie resta molto grande, e molto superiore – relativamente alle
dimensioni dell’economia – a quella dei maggiori paesi europei.
Questo
ha due implicazioni. La prima è che la fragilità italiana legata al
debito pubblico viene capovolta se consideriamo il totale del debito,
pubblico e privato. In rapporto al Pil la somma del debito pubblico e
privato italiano resta di otto punti percentuali sotto il valore mediano
dei paesi dell’euro. L’alto debito pubblico è più che compensato dal
fatto che il debito di famiglie e imprese italiane è di oltre 30 punti
percentuali al di sotto della mediana europea. Tra i paesi “virtuosi” in
termini di debito totale, meglio dell’Italia fa soltanto la Germania .
La
seconda implicazione è che è qui – nella ricchezza immobiliare, ma
ancora di più in quella finanziaria – che si sono accumulati (e non
sono stati dissipati dalla crisi) i profitti e le rendite. Il declino
italiano ha fatto crescere poco la torta dei redditi, calare la fetta
dei salari, reso più poveri i poveri di reddito che, come abbiamo visto,
sono addirittura poverissimi in termini di ricchezza posseduta. Sul
fronte opposto, manager, imprenditori, professionisti, lavoratori
autonomi hanno ottenuto grandi profitti, senza confronti con gli altri
paesi europei, e hanno visto crescere le loro ricchezze. È da questa
grande ricchezza italiana – immobiliare, ma più ancora finanziaria –
estremamente concentrata nelle mani dei più ricchi, che si possono
trovare le risorse, attraverso politiche economiche appropriate, per
finanziare la ripresa dopo la crisi, una “via d’uscita” dal declino e
una “grande redistribuzione” che migliori le condizioni di vita e la
giustizia sociale del paese.(…)
Queste disuguaglianze estreme, senza precedenti, non sono spuntate da sole. Vent’anni fa erano più contenute perché la politica
le limitava. Su buona parte dei loro redditi, ciascun
“super-stra-ricco” doveva pagare vent’anni fa un’aliquota fiscale del
72%, come in quasi tutto il resto d’Europa. Oggi paga il 43%: poco più
di chi ha un reddito dieci volte inferiore. Fino a dieci anni fa
l’imposta di successione assicurava un minimo di contenimento nella
concentrazione della ricchezza: è stata prima ridotta e poi abolita, di
comune accordo, dai governi di centro-sinistra e di destra.
Si chiude qui la parabola di trent’anni di liberismo. È sorto come
un’ideologia fondata sulla libertà di cambiare, sull’esplosione della
finanza, delle nuove tecnologie e della globalizzazione, delle
opportunità d’impresa contrapposte ai vincoli della politica e della
società. Ora tramonta tra crisi e depressione, impoverimento e
austerità, e prende la forma di un ancien régime di privilegiati,
contornati da un populismo reazionario. Purtroppo questo “tramonto” del
liberismo non coincide necessariamente con la fine della sua egemonia:
potremmo avere una prolungata agonia che lacera l’Europa proprio come
avvenne negli anni venti e trenta del novecento. Un’alternativa, per
l’Europa e l’Italia, è necessaria e urgente: capace di unire i nove su dieci in un blocco sociale diverso, capace di costruire una nuova egemonia sulla politica e l’economia.
Un articolo del prof. Pianta sulla politica economica del Governo Monti
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