domenica 29 aprile 2012

Nove su dieci. Un libro per capire perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa. E come si può cambiare.



Il prof. Mario Pianta insegna Politica economica all'Università di Urbino ha scritto un interessantiso libro su quanto è accaduto alle famiglie italiane negli ultimi dieci. Siamo in presenza di un impoverimento delle condizioni materiali che nel passato non si era mai determinato. Questo non per colpa di un destino cinico e baro ma per scelte economiche e finanziarie che hanno contraddistinto questi ultimi anni anni.
Il professore indica, infine, alcune soluzioni per uscire da questa situazione.
Pubblico del libro l'introduzione, un estratto del terzo capitolo e un articolo  bnel quale viene esaminata la politica economica del governo Monti. 

Introduzione
Quasi tutti gli italiani stanno peggio di dieci anni fa. Questo libro spiega quanti siamo – all’incirca nove su dieci – e perché siamo scivolati in basso in termini di reddito, condizioni di vita, disuguaglianze. Spiega che cosa è successo nell’economia e nella politica, suggerisce una via d’uscita. La scena, nel primo capitolo, è disegnata dalla finanza e dall’Europa. Si ripercorre l’illusoria ascesa della finanza, che ha portato al crollo del 2008 e alla recessione del 2012. E si ripercorre la storia recente dell’integrazione europea, che ha portato al mercato e alla moneta unica. Liberismo e finanza sono stati i pilastri di un progetto europeo che ha dimenticato i problemi della convergenza tra le economie, di come governare i mercati, di come procedere con l’integrazione politica e mettere un po’ di democrazia nella costruzione europea. Il risultato è stata la paralisi dell’Europa di fronte alla crisi del debito pubblico (e privato) apertasi nel 2010 con le difficoltà della Grecia ed estesasi via via a Irlanda, Portogallo, Spa
gna, Italia e altri paesi. Per l’insistenza della Germania, l’Unione è oggi dominata da politiche di austerità che rischiano di portare l’Europa a una nuova grande depressione.
La traiettoria italiana è al centro del secondo capitolo. Un declino fatto di perdita di capacità produttiva, minore e peggiore occupazione, salari più bassi. Siamo stati protagonisti del “miracolo” di far diminuire per dieci anni la produttività del lavoro: non era mai successo in un paese moderno. Facciamo sparire i capitali dalle imprese, ignoriamo la ricerca e l’innovazione. In mercati più aperti, cerchiamo di essere competitivi con i paesi emergenti abbassando i salari e rendendo precario il lavoro. Vincolati dal cambio dell’euro, importiamo di più ed esportiamo di meno, e finanziamo il deficit corrente con afflussi di capitali che ci rendono ancora più fragili. In questo modo – ed è un altro “miracolo” – la politica e l’economia italiana hanno fatto crescere i profitti e le rendite più che in Europa. Redditi e ricchezza si sono concentrati nelle mani di uno su dieci, come mostra il terzo capitolo. Il reddito di uno dei 38 mila “straricchi” (lo 0,1% più ricco del paese) vale oggi quello di cento poveri che rientrano nel 10% più basso nella distribuzione. E la ricchezza di uno dei dieci più ricchi d’Italia vale quanto quella di trecentomila tra i più poveri. Nove su dieci sono invece i “perdenti”, divisi in mille modi – tra uomini e donne, tra vecchi e giovani, tra italiani e immigrati, tra Nord e Sud – ma uniti dall’impoverimento e dalla caduta delle prospettive. I modi in cui questo è avvenuto sono molti e complessi: passano per i cambiamenti nelle tecnologie e nella globalizzazione, per le “riforme” del mercato del lavoro che hanno portato a salari più bassi e più precarietà, per l’indebolimento dei sindacati e per i tagli nelle politiche di redistribuzione. Come è potuto succedere tutto questo? Togliere ai poveri per dare ai ricchi, rendere il lavoro più debole e il capitale più forte è da trent’anni l’orizzonte del liberismo, e nell’Italia del berlusconismo (ma anche dei governi di centro-sinistra) questi sono stati i risultati.
Per un’economia fragile come la nostra, lasciar fare ai mercati ha voluto dire innescare un circolo vizioso dopo l’altro. Capitali che non investono, settori avanzati che scompaiono insieme ai “buoni” posti di lavoro, produttività che cade quando si diffonde il lavoro precario pagato poco, la crescita che scompare. Sul fronte estero, una competitività in discesa, i conti in rosso e un potere crescente di grandi imprese straniere e finanza globale. Nei conti pubblici, l’ossessione di ridurre le imposte e la tolleranza per un’evasione fiscale record (con un condono dietro l’altro) hanno portato a nuovi deficit e a maggior debito pubblico; con l’emergenza del 2011 si sono imposte politiche di austerità che richiedono nuove strette fiscali e aggravano la recessione. In questo, il governo “tecnico” di Mario Monti non si discosta dalle traiettorie delle politiche economiche passate. In questi anni abbiamo visto – in Italia e in Europa – un ulteriore “miracolo”: una politica che tutela i privilegi di pochi – uno su dieci – ma riesce ad avere abbastanza consenso da vincere le elezioni, anche nel mezzo di crisi e recessione, spostando l’Europa ancora più a destra. E’ il blocco sociale della depressione, che si irrigidisce nel liberismo più ideologico, alimenta nazionalismi e razzismi, minaccia di lacerare l’Europa come negli anni trenta.
Ci meritiamo un altro futuro: evitare una grande depressione, costruire un benessere sostenibile, avere un’economia più giusta. Il quarto capitolo propone questa via d’uscita, partendo dalle proposte, esperienze e pratiche che si sono moltiplicate in Italia e in Europa. Serve una nuova politica, un blocco sociale che unisca i nove su dieci, un progetto alternativo di egemonia, un programma di politiche che facciano cambiare strada all’economia.

Estratto del terzo capitolo
Il reddito di cento poveri vale quello di ciascuno dei 38 mila italiani più ricchi. E ci vuole la ricchezza di trecentomila poveri – persone che rientrano nel 10% degli italiani con meno risorse – per uguagliare il patrimonio di uno dei dieci italiani più ricchi. Nel 2010 la ricchezza netta totale degli italiani era stimata in 9.500 miliardi di euro, ed è cresciuta moltissimo: oggi (a prezzi costanti) è sette volte e mezza in più del 1965; il tasso di crescita è stato del 4,7% l’anno, un record a confronto con il ristagno del reddito complessivo. Divisa per il numero di italiani, farebbe una ricchezza del valore di 143 mila euro a testa. Quasi due terzi della ricchezza sono beni reali (come gli immobili), il resto sono attività finanziarie, mentre i debiti rappresentano il 9% delle attività complessive. Fino al 1985 la ricchezza netta italiana non era molto superiore al Pil: la crescita dei redditi andava di pari passo con quella della ricchezza. Da allora, il gonfiarsi di attività finanziarie e immobiliari hanno portato la ricchezza italiana a raggiungere un valore di 5,7 volte il Pil nel 2009 (4,5 volte se sottraiamo il debito pubblico); tra 1985 e oggi questo rapporto è raddoppiato.
Le disuguaglianze qui sono molto forti. Il 10% delle famiglie più ricche possiede quasi il 45% della ricchezza totale, mentre riceve il 27% del reddito. Il 50% delle famiglie più povere dispone di appena il 10% della ricchezza totale. All’estremo vertice della piramide, i dieci individui più ricchi posseggono una quantità di ricchezza pari a quella dei tre milioni di italiani più poveri In media, la ricchezza di uno di questi italiani che guidano la classifica dei “super-stra-ricchi”, vale quella di trecentomila italiani poveri. Un dato da paese feudale.
A quali gruppi sociali va la ricchezza italiana? Se poniamo pari a 100 la ricchezza familiare netta media del paese, vediamo che il gruppo professionale dei dirigenti presenta un valore medio pari a 246 (in crescita negli ultimi dieci anni), i professionisti sono a 203 (in aumento dopo il 2000), imprenditori e autonomi hanno valori pari a 153 (in calo). Il declino dei ceti medi si vede con la posizione degli impiegati, che hanno ora livelli di ricchezza inferiori alla media, pari a 95, mentre nel 1993 i loro patrimoni erano pari al 106% della media nazionale. I veri “perdenti” sono gli operai, che nel 1987 avevano proprietà pari al 62% della media degli italiani, e ora dispongono solo del 44%. Che l’Italia sia sempre meno “un paese per giovani” si vede anche dalla distribuzione per età; i “perdenti” rispetto al 1987 sono in tutte le fasce di età fino ai 54 anni, tutte con valori medi della ricchezza inferiori alla media nazionale. Per i giovani fino a 34 anni l’impoverimento è nettissimo: si passa da valori pari all’83% della media nazionale nel 1987 al 62% nel 2008.
Se ci concentriamo sui patrimoni finanziari, nella media degli anni 2000-2008 la ricchezza finanziaria netta delle famiglie italiane è pari a 1,6 volte il Pil, più alta di tutti i maggiori paesi europei, Gran Bretagna compresa; Francia, Germania e Olanda hanno valori intorno a 1,2 volte il Pil. Le dimensioni di questa “potenza finanziaria” delle famiglie italiane, relativa agli altri paesi europei, sono sorprendenti. I flussi di risparmi si sono notevolmente ridotti in Italia, ma negli altri paesi erano da tempo inferiori. Che cosa ha tenuto in alto i livelli di ricchezza finanziaria nel nostro paese? La domanda giusta è “che cosa non li ha trascinati in basso?”. E la risposta è il debito privato.
Nel nostro paese, di fronte alla caduta dei redditi reali di nove su dieci degli italiani, i consumi sono stati sostenuti prevalentemente da una riduzione dei risparmi; il ricorso al debito privato è salito, ma resta molto distante dalla situazione degli altri paesi europei. In rapporto alla ricchezza finanziaria delle famiglie, il debito delle famiglie è passato dall’11% del 2000 al 16% del 2008. Negli stessi anni la Francia passava dal 28 al 30%, la Gran Bretagna dal 22 al 40%, la Spagna dal 30 al 50%. In controtendenza, ancora una volta, solo la Germania, che ha visto il debito ridursi dal 42 al 32% della ricchezza. Ecco una notizia importante per l’Italia: la minor diffusione della finanza nella vita delle famiglie ha ridotto la fragilità dell’intero paese, e limitato gli effetti negativi delle oscillazioni di Borsa; la ricchezza delle famiglie resta molto grande, e molto superiore – relativamente alle dimensioni dell’economia – a quella dei maggiori paesi europei.
Questo ha due implicazioni. La prima è che la fragilità italiana legata al debito pubblico viene capovolta se consideriamo il totale del debito, pubblico e privato. In rapporto al Pil la somma del debito pubblico e privato italiano resta di otto punti percentuali sotto il valore mediano dei paesi dell’euro. L’alto debito pubblico è più che compensato dal fatto che il debito di famiglie e imprese italiane è di oltre 30 punti percentuali al di sotto della mediana europea. Tra i paesi “virtuosi” in termini di debito totale, meglio dell’Italia fa soltanto la Germania .
La seconda implicazione è che è qui – nella ricchezza immobiliare, ma ancora di più in quella finanziaria – che si sono accumulati (e non sono stati dissipati dalla crisi) i profitti e le rendite. Il declino italiano ha fatto crescere poco la torta dei redditi, calare la fetta dei salari, reso più poveri i poveri di reddito che, come abbiamo visto, sono addirittura poverissimi in termini di ricchezza posseduta. Sul fronte opposto, manager, imprenditori, professionisti, lavoratori autonomi hanno ottenuto grandi profitti, senza confronti con gli altri paesi europei, e hanno visto crescere le loro ricchezze. È da questa grande ricchezza italiana – immobiliare, ma più ancora finanziaria – estremamente concentrata nelle mani dei più ricchi, che si possono trovare le risorse, attraverso politiche economiche appropriate, per finanziare la ripresa dopo la crisi, una “via d’uscita” dal declino e una “grande redistribuzione” che migliori le condizioni di vita e la giustizia sociale del paese.(…)
Queste disuguaglianze estreme, senza precedenti, non sono spuntate da sole. Vent’anni fa erano più contenute perché la politica le limitava. Su buona parte dei loro redditi, ciascun “super-stra-ricco” doveva pagare vent’anni fa un’aliquota fiscale del 72%, come in quasi tutto il resto d’Europa. Oggi paga il 43%: poco più di chi ha un reddito dieci volte inferiore. Fino a dieci anni fa l’imposta di successione assicurava un minimo di contenimento nella concentrazione della ricchezza: è stata prima ridotta e poi abolita, di comune accordo, dai governi di centro-sinistra e di destra.
Si chiude qui la parabola di trent’anni di liberismo. È sorto come un’ideologia fondata sulla libertà di cambiare, sull’esplosione della finanza, delle nuove tecnologie e della globalizzazione, delle opportunità d’impresa contrapposte ai vincoli della politica e della società. Ora tramonta tra crisi e depressione, impoverimento e austerità, e prende la forma di un ancien régime di privilegiati, contornati da un populismo reazionario. Purtroppo questo “tramonto” del liberismo non coincide necessariamente con la fine della sua egemonia: potremmo avere una prolungata agonia che lacera l’Europa proprio come avvenne negli anni venti e trenta del novecento. Un’alternativa, per l’Europa e l’Italia, è necessaria e urgente: capace di unire i nove su dieci in un blocco sociale diverso, capace di costruire una nuova egemonia sulla politica e l’economia.

Un articolo del prof. Pianta sulla politica economica del Governo Monti

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