martedì 26 febbraio 2013

Le comunicazioni del Presidente della Commissione Antimafia sulle stragi del 92/93

E' passato quasi sotto silenzio, eppure si tratta di un documento da leggere attentamente.
Parliamo della comunicazione del sen.Pisanu, presidente della Commissione parlamentare antimafia della scorsa legislatura sulle strage del 1992/93, sui grandi delitti e sulle stragi di mafia del 1992/93.
Le stragi e delitti (Falcone e Borsellino) che dovevano servire a costringere il Governo a intavolare la "trattativa" con la mafia.
Non si è alla ricerca di responsabili di reati ma di individuare responsabilità politiche che ricadono sui protagonisti della vicenda.
Un biennio dai contorni ancora oscuri, sui quali, si spera, si possa conoscere la verità


domenica 24 febbraio 2013

I diritti dei lavoratori impegnati nei seggi (ripropongo un post già pubblicato precedentemente)

Il prossimo 24 e 25 febbraio saremo chiamati a rinnovare il Parlamento nazionale.
La domanda come in ogni elezione sorge spontanea: quali diritti sono riconosciuti ai lavoratori impegnati nei seggi elettorali?.
Pubblico una mini guida al fine di orientarsi, sapere cosa fare, come comportarsi.

DIRITTI DEI LAVORATORI IMPEGNATI NELLE OPERAZIONI ELETTORALI PER ESERCITARE LA FUNZIONE DI PRESIDENTE, SCRUTATORE NEL SEGGIO ELETTORALE E PER SVOLGERE LA FUNZIONE DI RAPPRESENTANTE DI LISTA
Al lavoratore, con contratto a tempo indeterminato e determinato (anche temporaneo) sia nel pubblico che nel privato, chiamato a svolgere funzioni presso i seggi elettorali per le elezioni del Parlamento (nazionale ed europeo), per le elezioni comunali, provinciali e regionali ed in occasione delle consultazioni referendarie, ai sensi dell’art. 119 del T.U. n. 361/57, modificato dalla Legge n.53/90, e dell’art. 1 della Legge 29.1.1992, n. 69, è riconosciuto il diritto di assentarsi per tutto il periodo corrispondente alla durata delle operazioni di voto e di scrutinio. L’assenza è considerata attività lavorativa a tutti gli effetti.
Il beneficio spetta ai componenti del seggio elettorale (presidente, scrutatore, segretario), ai rappresentanti di lista, nonché in occasione del referendum popolare ai rappresentanti dei promotori del referendum. Analogo diritto spetta ai lavoratori impegnati a vario titolo nelle operazioni elettorali (vigilanza o altro). Essendo l'attività prestata presso i seggi equiparata (2° comma art. 119 Legge 361/57) ad attività lavorativa, non è consentito richiedere prestazioni lavorative nei giorni coincidenti con le operazioni elettorali, anche se eventuali obblighi di servizio fossero collocati in orario diverso da quello di impegno ai seggi.
I componenti del seggio elettorale o rappresentanti di lista o comunque impegnati in operazioni connesse, hanno diritto inoltre a recuperare le giornate non lavorative di impegno ai seggi con giorni di recupero da concordare con il datore di lavoro, in rapporto anche alle esigenze di servizio.
Per quanto riguarda i riposi compensativi si ricorda l’orientamento della Corte Costituzionale, secondo cui il lavoratore ha diritto al recupero delle giornate festive (la domenica), o non lavorative (il sabato, nel caso di settimana corta e cioè di intero orario settimanale prestato dal lunedì al venerdì), destinate alle operazioni elettorali, nel “periodo immediatamente successivo ad esse”.
In altri termini, i lavoratori interessati avranno diritto a restare a casa retribuiti nei due giorni successivi alle operazioni elettorali (se il sabato è non lavorativo), o nel giorno successivo (se il sabato è lavorativo), salvo diverso accordo con il datore di lavoro, in forza della "voluta parificazione legislativa tra attività al seggio e prestazione lavorativa, rispetto al quale la garanzia del riposo è precetto costituzionale" (Corte Costituzionale n. 452 del 1991).
La giurisprudenza ha precisato che in caso di svolgimento di operazioni che occupino anche solo una porzione di giornata il diritto ad assentarsi debba valere per l’intero giorno lavorativo (Cass. Sez. Lav., sent. n. 8712 del 17 giugno 2002). Così, a titolo di esempio, lo spoglio terminato alle ore due del mattino di lunedì, conferisce al lavoratore il diritto ad astenersi per l’intera giornata e di percepire l’intera retribuzione.
Comunque, in caso di mancato godimento dei riposi compensativi non potrà essere negato ai lavoratori occupati nei seggi il pagamento delle quote di retribuzione dovute (Legge n. 69/1992).
Qualora l'amministrazione/il datore di lavoro si dovesse rifiutare di concedere l'immediata fruizione delle giornate di cui sopra per particolari esigenze di servizio, è opportuno non assentarsi, ma rivendicarne il godimento (ovvero il pagamento) successivamente.
Ai fini del godimento dei diritti sopra riportati, il lavoratore è tenuto a presentare al proprio datore di lavoro la documentazione idonea a giustificare la ragione dell’assenza dal luogo di lavoro. Tale documentazione dovrà essere sottoscritta e vistata dalla presidenza e dalla vicepresidenza del seggio elettorale ove il lavoratore ha svolto la propria attività. Dovrà prestarsi attenzione alla completezza delle informazioni riportate. In particolare, il certificato di chiamata al seggio dovrà esporre la data e ora di inizio delle operazioni, le presenze effettive, nonché la data e ora di chiusura delle operazioni stesse.
La legge non prevede modalità particolari in merito a eventuali comunicazioni preventive del lavoratore al datore di lavoro. In questo caso, alla luce dei principi di correttezza e buona fede, può ritenersi utile una comunicazione preventiva ogniqualvolta l’assenza del lavoratore possa avere conseguenze sull’organizzazione della normale attività produttiva.
DOCUMENTI GIUSTIFICATIVI DELL'ASSENZA:
Scrutatori e segretari = la nomina del comune (se si tratta di provvedimento di urgenza del presidente di seggio) e la dichiarazione successiva a cura del presidente che attesta la presenza al seggio (corredata da orario iniziale e finale delle operazioni).
Presidenti di seggio = il decreto di nomina e la dichiarazione ( meglio se vistata dal vicepresidente) che comprovi giorno e ora di inizio delle operazioni presso i seggi.
Rappresentanti di lista = il certificato redatto dal presidente di seggio che attesta l’esecuzione dell’incarico ricevuto dalla lista e recante l’orario di presentazione al seggio e quello conclusivo delle operazioni di spoglio dell’ultimo giorno.
Particolare attenzione va posta ai documenti, esiste infatti la facoltà per il rappresentante di lista di presentarsi fino al momento dello scrutinio perciò il certificato deve portare menzione specifica dell’accreditamento nelle giornate di sabato e/o di domenica, che altrimenti non sono prese in considerazione ai fini del recupero o, per il sabato, dell’eventuale pagamento.

ASSENZA DAL LAVORO DEI DIPENDENTI CHE SI RECANO A VOTARE IN COMUNI DIVERSI DA QUELLI OVE PRESTANO L’ATTIVITÀ LAVORATIVA
Non è previsto alcun permesso specifico per recarsi a votare, fatto salvo quanto indicato nel paragrafo successivo.
E' comunque pacifico il diritto del lavoratore a chiedere - ed ottenere - permessi non retribuiti o ferie per raggiungere il proprio comune di residenza con i mezzi di trasporto ordinari (treno,aereo, nave).
Solo il personale con rapporto a tempo indeterminato dei comparti pubblici può fruire, a tale scopo, dei permessi retribuiti previsti contrattualmente, se non ancora utilizzati.

PERMESSO RETRIBUITI AI DIPENDENTI PUBBLICI PER ESERCITARE IL DIRITTO DI VOTO
La materia è disciplinata dalla circolare della ragioneria generale dello Stato Igop n. 23 del 10.3.1992. La concessione del permesso retribuito per recarsi a votare in comune diverso da quello della sede di servizio, ai sensi dell’ art. 118 del DPR 30.3.1957, n. 361, è previsto solo nell’ipotesi in cui il lavoratore risulti trasferito di sede nell’approssimarsi delle elezioni il quale, anche se abbia provveduto nel prescritto termine di 20 giorni a chiedere il trasferimento di residenza, non abbia ottenuto in tempo l’iscrizione nelle liste elettorali della nuova sede di servizio.
Qualora ricorra la predetta circostanza al lavoratore va riconosciuto il permesso retribuito per l’esercizio del diritto di voto entro i limiti di tempo stabiliti dal Ministero del Tesoro con Decreto 5.3.1992 sotto indicati, comprensivi del tempo occorrente per il viaggio di andata e ritorno:
un giorno per le distanze da 350 a 700 chilometri;
due giorni per le distanze oltre i 700 chilometri o per spostamenti da e per le isole.

AGEVOLAZIONI PREVISTE SULLE SPESE DI VIAGGIO SOSTENUTE, A FRONTE DELLA PRESENTAZIONE DELLA TESSERA ELETTORALE
Per usufruire delle agevolazioni occorre presentare la tessera elettorale: in mancanza della tessera elettorale il viaggiatore potrà firmare un'autocertificazione. In ogni caso nel viaggio di ritorno l'elettore dovrà presentare la tessera elettorale con il timbro della sezione presso cui ha votato.
Si ricorda che il diritto di voto è, a norma dell'art. 48 della Costituzione, dovere civico ed è tutelato e garantito dalle disposizioni generali dell’ordinamento in materia di esercizio dei diritti politici, per cui sarebbero illegittimi eventuali comportamenti miranti ad ostacolarlo.

Agevolazioni sulle spese di viaggio per gli elettori residenti in Italia
Treno: riduzione del 60% sulla tariffa ordinaria (andata e ritorno) sia per la 1^ che per la 2^classe;
Nave: riduzione del 60% sulla tariffa ordinaria (andata e ritorno).
Informazioni più dettagliate possono essere ottenute rivolgendosi agli Uffici delle FF.SS. Trenitalia S.p.A. e presso le compagnie marittime.

RIEPILOGANDO
Sabato 23 febbraio
nell’ipotesi di settimana lunga su 6 giorni: normale retribuzione anche se l’attività ai seggi è di entità ridotta e non concomitante con l’orario di lavoro
nell’ipotesi di settimana corta su 5 giorni: una giornata di retribuzione in aggiunta alla retribuzione normalmente percepita, oppure in alternativa una giornata di riposo compensativo, da concordare tra datore di lavoro e lavoratore
Domenica 24 febbraio
una giornata di retribuzione in aggiunta alla normale retribuzione normalmente percepita, oppure in alternativa una giornata di riposo compensativo da fruirsi immediatamente dopo le elezioni
Lunedì 25 febbraio(e martedì 26 qualora le operazioni di scrutinio abbiano termine dopo le ore 24 del lunedì) normale retribuzione anche se l’attività ai seggi è di entità ridotta e non concomitante con l’orario di lavoro

mercoledì 20 febbraio 2013

Che fare dopo le elezioni? Il pensiero di Fabrizio Barca

Che fare dopo le elezioni? Più domanda, nuova offerta, più lavoro e qualità degli interventi sono i punti chiave di una politica capace di innovare, sperimentare e produrre risultati per i cittadini. Con partiti che ritrovino il loro ruolo e restituiscano una dimensione democratica alla politica economica
Colgo l’occasione che mi viene proposta di esprimere alcuni commenti sulle proposte elaborate nel corso del dibattito “La rotta d’Italia” animato dalla rete Sbilanciamoci!. Non condivido il giudizio sommario espresso sul governo Monti, né l’equidistanza politica espressa dalla colazione fra PD e SEL e dalla lista Rivoluzione Civile. E non mi ritrovo in molte proposte. Ma mi ritrovo assai nel metodo. Quello del confronto pubblico, aperto e acceso. Ci saranno certo altre occasioni di confronto. Ma non voglio mancare questa. Lo faccio con interesse nel momento in cui sto uscendo dall’esperienza di questo anno di governo, un anno in cui ho avuto anche modo di mettere alla prova idee maturate nella mia passata esperienza amministrativa. E colgo dunque alcuni spunti che possano anche consentirmi di esprimere le mie valutazioni sul “che fare”, dopo 15 mesi di governo.
Parto dal tema della politica pubblica proposta in particolare da Gnesutta e Pianta, e leggibile in filigrana in tutti gli interventi successivi, dove si propone di garantire un margine di manovra alle politiche di domanda più ampio di quello attualmente previsto dal quadro istituzionale comunitario. D’accordo, uno dei grandi errori del trentennio liberista è avere dichiarato finito il ciclo economico, e avere abbandonato le politiche anticicliche. Nell’ambito della mia missione di governo ho realizzato nel Sud, dove avevo margini finanziari, d’intesa con sei organizzazioni del partenariato sociale ed economico e con quattro Regioni, una manovra anticiclica per oltre 2 miliardi.
Ma forte deve essere, specie in Italia, l’attenzione all’offerta, alla qualità effettiva dei servizi che l’intervento produce e dei comportamenti che esso induce. Dobbiamo disegnare forme dell’intervento pubblico che garantiscano la maggiore efficacia possibile della spesa.
Come? Il metodo che abbiamo cercato di costruire è quello del continuo confronto tra risultati attesi e conseguiti, non sulla base di obiettivi di output (chilometri di strada ferrata posata, ore di lezione impartite), ma piuttosto di indicatori di risultato atteso per la qualità della vita dei cittadini (dunque minuti risparmiati negli spostamenti, oppure risultati conseguiti dagli studenti nei test OCSE-PISA). Non, dunque, una valorizzazione del ruolo della domanda pubblica basato sul vecchio assunto di “scavare buche e poi riempirle di nuovo”; ma la valorizzazione di una domanda pubblica qualificata, che privilegi i consumi collettivi, in linea con l’ammonimento ricorrente nei periodi più alti della cultura della programmazione in Italia (penso all’attualità straordinaria di alcuni passaggi della “Nota aggiuntiva” del 1962 e all’insegnamento di Claudio Napoleoni).
È un metodo che sull’esperienza statunitense, catturata dal pensiero di Charles Sabel, è definito “sperimentalismo”, dove i responsabili dell’azione pubblica riconoscono la loro ignoranza, riconoscono che molta della conoscenza sul “che fare” è posseduta dai soggetti che producono e consumano beni pubblici. Ma che non rinunciano per questo a operare scelte e assumere responsabilità. E piuttosto costruiscono un itinerario di realizzazione e apprendimento. Aperto al pubblico e acceso al confronto. E perciò informato e verificato. È il metodo che abbiamo riassunto nel documento “Metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi comunitari 2014-2020”.
Questo diverso approccio metodologico alla spesa pubblica rende i cittadini partecipi della programmazione e attuazione della politica economica. La richiesta di un maggiore spazio di manovra fiscale arriva ai tavoli comunitari non più come l’istanza di una classe dirigente “estrattiva”, che su quella spesa pubblica ha costruito la sua posizione di rendita, ma piuttosto come rivendicazione condivisa pubblicamente, elaborata e sostenuta da cittadini finalmente dotati degli strumenti necessari a verificare l’effettiva attuazione dei singoli interventi di politica economica. E dunque va accompagnato da idonei strumenti di trasparenza non solo su tempi e modi dell’investimento delle risorse, ma proprio sugli obiettivi ultimi perseguiti con i diversi interventi, per consentire a tutti i cittadini, singoli o associati, di valutare se davvero una azione è andata bene o male, ha prodotto quanto si proponeva o meno. La via, insomma, che ho cercato di intraprendere in questi mesi con l’apertura del portale Opencoesione, il primo sistema di open data in senso proprio sui fondi di coesione in Europa.
Condivido poi le preoccupazioni diPizzuti circa la progressiva erosione del sistema di Welfare che caratterizza il modello di sviluppo europeo, storicamente orientato all’inclusione sociale, rispetto a quello anglosassone. Particolarmente grave in Italia dove la quota di prodotto nel computo dei servizi sociali e sanitari è ancora così modesta. La difesa del modello sociale europeo può, a mio avviso, essere sostenuta da posizioni progressiste in Europa (contro il supposto “true progressivism” analizzato efficacemente da Pini), qualora un’intelligente operazione di “revisione della spesa” (mai davvero fatta in questo Paese, che persevera sulla scorciatoia dei tagli lineari), che sposti le risorse dagli impieghi più inefficaci e lontani dai bisogni dei cittadini ai servizi essenziali, si affianchi alle politiche richieste – di volta in volta – dai territori. Ne potrebbe scaturire, ad esempio, una spesa redistribuita o anche accresciuta per la scuola, ma rivolta a misurati risultati: l’allungamento dell’orario di lezione, il calo della dispersione scolastica e il sostegno all’acquisizione delle key competences.
Quello che, nel contesto comunitario, occorre rafforzare del nostro modello sociale è ciò che può portare ad arginare l’attuale tendenza all’ampliamento delle disuguaglianze tra paesi centrali e paesi periferici, richiamato da Bogliacino, in contrasto con un’Europa che promette (prometteva?) diritti di cittadinanza. Solo così è possibile rilanciare il progetto di integrazione europea – oggi drammaticamente messo in discussione dalla crisi.
Sono poi d’accordo con quelli che, come Carlini, sottolineano la centralità del tema del lavoro, e del lavoro dei giovani: l’unica prospettiva di sviluppo capace di coniugare crescita economica e inclusione sociale è quella che si pone chiari obiettivi di aumento dei tassi di occupazione, come suggerito da Garibaldo. Ma, anche in questo caso, occorre a mio avviso puntare all’innovazione sociale e non alla ripetizione di vecchie ricette insostenibili sul piano operativo o attuariale. Perché una prospettiva innovativa di sostegno all’occupazione sia praticabile, più che il rilancio della domanda può, a mio avviso, la valorizzazione di quei “corpi intermedi” che sono i sindacati: Carrieri lo dice chiaramente, ed io sono d’accordo con la sua idea che marginalizzare le rappresentanze dei lavoratori significhi aderire ad una “paradigma sotterraneo” che non ha nulla a che vedere con la crescita economica. I sindacati, in questo senso, vanno utilizzati e valorizzati, secondo me, non per concordare al ribasso condizioni di pace sociale in quanto rappresentanti di interessi del lavoro; ma piuttosto nella fase ascendente della costruzione delle politiche, come vettori di conoscenza, e dunque possibili pilastri di alleanze ma anche portatori di elementi di conflitto che spinga al superamento di vecchi equilibri, snodi di legature sociali e dunque attori necessari a realizzare inclusione all’interno di un percorso di crescita.
Al tempo stesso, il tentativo di rilancio della crescita deve confrontarsi con quei 14 punti percentuali di produzione industriale perduti negli ultimi dieci anni di cui ci parla Romano. La struttura produttiva del nostro paese va incontro a profondi mutamenti, e la politica economica deve porsi il problema di come accompagnare questi cambiamenti. Da qui la necessità di rilanciare una politica industriale innovativa, che colmi, da un lato, le debolezze del nostro tessuto industriale (penso anche alla difesa del manifatturiero di cui parla Garibaldo e di recente posta con forza da Confindustria), e sia in grado, dall’altro, di cogliere i segnali di vitalità che, pure in tempi di crisi, le nostre imprese hanno saputo lanciare, e dunque permettere ai segmenti più promettenti dell’apparato produttivo un salto di qualità. Ancora una volta osservo, però, che la chiave è l’innovazione delle politiche: non più sussidi e defiscalizzazioni, per esempio, ma domanda pubblica innovativa (come nel caso dei bandi precommerciali), concorrenza sulle idee attorno a strategie di sviluppo locale, apertura agli innovatori, rivalutazione del ruolo del sapere e del saper fare adattato alle nuove filiere industriali di punta.
Se una rinnovata politica industriale è, come credo, un presupposto necessario al rilancio, il paese deve anche misurarsi con la valorizzazione del suo patrimonio naturale e culturale, invasi di fiumi; versanti di colline e monti; piane bonificate; boschi disegnati in secoli; siti di grandi centri del passato; architetture di ogni epoca, segno dell’evoluzione delle funzioni e del gusto; pitture, sculture, rilievi di ogni misura creati da centinaia di migliaia di artisti e artigiani; sentieri, viottoli, strade, mulattiere segnate per comunicare o per difendersi; borghi, eremi, chiese, masi, capanne, traccia delle civiltà succedutesi. È uno straordinario “lavoro morto”, frutto dei nostri avi, provenienti da ogni angolo, sul quale sediamo sempre più come “moderni” rentier. E che potremmo tornare ad animare con il nostro lavoro vivo. È questa, io credo, la chiave con cui rinnovarsi nella direzione dei temi dell’ambiente e della cura del territorio messi al centro da Andreis e Silvestrini  nei loro rispettivi interventi. Essa può attivare ulteriori inerzie positive per la competitività del nostro sistema di imprese e per il legame tra attività produttive e territori. Anche su questo fronte in questi mesi abbiamo coagulato tracce per una strategia: il Progetto aree interne, con il quale si potrebbero attivare le potenzialità di sviluppo per i luoghi tutti del nostro policentrico Paese con una strategia che coniughi crescita economica e tutela del territorio.
Ma manca ancora qualcosa. Di assai importante. E il modo migliore per concludere queste mie riflessioni me lo suggerisce allora l’intervento di Rogozzino: le attuali circostanze economiche e sociali impongono, con urgenza, un ritorno della politica.
Con Ragozzino, penso alla politica intesa come “lavoro politico”: in questo senso, resto convinto della impossibilità di prescindere da una “politica come professione” (per dirla con l’abusato Max Weber), ma anche della necessità dei partiti. Che dai vecchi partiti di massa anni ’50 riprendano la centralità dei beni comuni sui beni particolari, ma con un nuovo compito fondamentale: integrare informazioni e conoscenze, far emergere non solo le istanze e le priorità espresse dagli attori sociali, dai territori e dalle città, ma soprattutto le loro idee sul “che fare”, frutto della loro esperienza. L’assenza di una reazione alla crisi, di una gestione intenzionale dell’economia, di una ricetta per rilanciare lo sviluppo, proviene a mio avviso anche e soprattutto dall’assenza dei partiti, di quello che Ragozzino chiama “lavoro di mediazione” tra interessi diversi, a cui io aggiungo “fra conoscenze diverse”.
La speranza è che quel lavoro di mediazione, e di restituzione di una dimensione democratica alla politica economica, venga ripreso da partiti capaci di uscire da una impasse ormai troppo lunga, per porre le basi di elaborazione di una valida risposta alle sfide che la presente crisi pone al nostro Paese. 

Dal sito www.sbilanciamoci.info

lunedì 18 febbraio 2013

La disoccupazione crea disoccupazione. Intervista a Luciano Gallino

Quattro milioni di senza lavoro, decine di miliardi di reddito perduto, la crisi che non finisce mai, disoccupazione che crea disoccupazione. Ma altre politiche sono possibili, per il lavoro, la spesa pubblica, il welfare, secondo Luciano Gallino
Appese alle pareti della casa di Luciano Gallino, le foto della moglie Tilde mescolano molteplici piani attraverso giochi di specchi, spingendosi oltre la percezione di un istante e cogliendo la sfuggente complessità d’insieme. È uno sforzo, questo, che si ritrova poco più in là, negli scaffali ricolmi di libri del professore, perché afferrare la complessità, arrivare al cuore delle cose, necessita di uno studio meticoloso e incessante. E spiegarla, poi, richiede un impegno altrettanto esigente, senza sosta, né risparmio: un impegno generoso, che passa per conferenze in Italia e all’estero, interviste e un nuovo libro per raccontare cos’è accaduto e come mai la gente continua a farlo accadere. Nel contesto odierno, dominato da semplificazioni populistiche e una visione neoliberista talmente radicata e potente da riuscire nel paradosso di gestire l’incendio dopo aver appiccato il fuoco, la voce di Luciano Gallino è un punto di riferimento prezioso per tracciare la rotta da seguire.
Una rotta che nasce dalla necessità del lavoro. “In Italia, ci sono circa quattro milioni di persone fra disoccupati e non occupati. Di conseguenza, una ricchezza pari a decine di miliardi l’anno non viene prodotta e non diventa domanda, commesse per le imprese, consumi. Il risultato è che la disoccupazione crea disoccupazione”.
Per creare occupazione bisogna seguire l’esempio di Roosevelt. “Con il New Deal, lo Stato si è impegnato a creare direttamente occupazione e in alcuni mesi furono assunti milioni di persone”. Un New Deal italiano permetterebbe non solo di creare ricchezza, ma anche di risolvere annosi problemi. A cominciare dal suolo. “Il dissesto idrogeologico riguarda più di un terzo del Paese. È un campo in cui i soldi si trovano sempre a posteriori, quando sono stati distrutti o allagati interi quartieri o quando ci sono frane, morti. Allora sì che si trovano i miliardi per riparare i danni. Sarebbe meglio spenderli prima, oculatamente, in opere da individuare”.
Prioritaria è anche la terribile situazione delle scuole. “Il 48% delle scuole italiane non ha un certificato che assicuri che l’edificio è a norma dal punto di vista della sicurezza statica. È possibile che i ragazzi italiani vadano in scuole metà delle quali non è a norma dal punto di vista della sicurezza? Non si tratta di pavimenti sconnessi o rubinetti che perdono, o servizi inadeguati, ma di muri, tetti, fondamenta, che bisognerebbe rivedere e rimettere a norma”.
La miopia riguarda anche il potenziale punto di forza dell’Italia. “Il degrado del nostro immenso patrimonio culturale è per molti aspetti sotto gli occhi di tutti. Negli anni si è puntato a migliorare i punti di ristoro nei musei, insistendo sulla fruibilità da parte di pubblici sempre più vasti, invece di intervenire sulla catalogazione digitale, sulla tutela effettiva, sulla custodia. Un’azione mirata può creare centinaia di migliaia di posti di lavoro”.
C’è poi il problema della riconversione del modello produttivo. “Il modello produttivo attuale è finito nell’estate del 2007. È impensabile che i posti di lavoro che si sono persi in questi anni siano ricostituiti, ripercorrendo lo stesso modello produttivo. Processi come l’automazione e la razionalizzazione hanno soppresso quote impressionanti di posti di lavoro e molte imprese si dirigono sempre di più verso Paesi in cui i salari, le condizioni ambientali o fiscali sono più favorevoli. Occorrerebbe pensare a forme di ecoindustria, cercando di evitare errori e compromessi che hanno, in alcuni casi, caratterizzato lo sviluppo di nuovi settori, come ad esempio si è visto con la creazione di parchi eolici”.
Una riconversione che riguarda anche l’agricoltura. “Anche qui, l’epoca in cui la lattuga del Cile o i pomodori di un altro Paese facevano 10 o 20 mila km prima di arrivare sulla tavola di qualcuno probabilmente è finita. Il costo dei carburanti, degli aerei e della logistica stanno in qualche modo imponendo forme di consumi agricoli, consumi alimentari che non saranno a km zero, ma certamente non a km 10 mila o 20 mila, come è stato invece per molti anni. Il ministero dell’agricoltura dovrebbe occuparsi della riduzione dei km che pomodori, lattuga e formaggi e altro percorrono prima di arrivare sulle nostre tavole”.
Per creare occupazione, l’ideale sarebbe un’agenzia centrale. “So che a molti sale la temperatura quando sentono parlare di Stato che occupa le persone. Bisognerebbe creare un’agenzia centrale che determina i limiti e che incassa i soldi da varie fonti, magari appunto dallo Stato stesso o da una rivisitazione degli ammortizzatori sociali. L’assunzione diretta può essere affidata ai cosiddetti territori, al non profit, al volontariato, ai servizi per l’impiego, alla miriade di entità locali, comprese piccole e medie imprese”.
L’occupazione diretta servirebbe molto di più dei soliti incentivi. “Una miriade di rapporti e documenti testimoniano che, se voglio creare un posto di lavoro, è molto più conveniente dare mille euro al mese a uno che lavora piuttosto che trasformarli in sconti fiscali, contributi alle imprese, nel caso assumano qualcuno. L’assunzione diretta ha un effetto immediato sulla persona e sull’economia, perché il giorno dopo che ho versato a qualcuno mille euro di stipendio, quello li spende contribuendo così al lavoro di qualcun altro. L’incentivo all’impresa, lo sgravio fiscale, la riduzione del cuneo fiscale e altre cose del genere hanno, invece, effetti molto più ritardati”.
E sotto attacco finirebbero ancora i meccanismi di protezione sociale. “Quando si parla di riduzione del cuneo fiscale, si ha in mente la riduzione dei contributi per le pensioni, la sanità e altro. La riduzione dei contributi implica che qualcuno pagherà ticket sanitari più elevati, magari a fronte di mezzi familiari scarsi, o che subirà un’ulteriore riduzione della pensione. Si annuncia di ridurre il cuneo fiscale, ma non si precisa come si recuperano quei contributi che vengono a mancare”. Un modo sottile per continuare a prosciugare il welfare.
Ma come finanziare gli interventi proposti? Per capirlo, bisogna ragionare su vari aspetti. Innanzi tutto il ruolo della Banca Centrale Europea. “Noi non disponiamo di una moneta sovrana, dipendiamo da una moneta che per certi aspetti è una moneta straniera. Non vuole essere una polemica contro l’euro, perché le polemiche contro l’euro sono semplicemente idiote e non vorrei minimamente essere accostato a quelle. Resta, però, il fatto che, mentre la Federal Reserve può creare quanto denaro vuole, noi non possiamo prendere in prestito soldi direttamente dalla Banca centrale per creare occupazione”.
Il problema è che i soldi ci sono, ma non arrivano a destinazione. “Tra il novembre 2011 e il febbraio 2012, la BCE ha prestato alle banche 1.100 miliardi di euro, con un interesse dell’1%. E li ha prestati senza chiedere nulla. Alla fine, si è scoperto che soltanto un rivoletto di quei 1.100 miliardi è finito alle imprese, al lavoro, all’economia reale”. E allora? “Allora, è davvero politicamente impossibile pretendere in sede europea che la BCE presti soldi soltanto se questi vengono destinati, attraverso le banche, all’economia reale e se le imprese e le società non profit che li prendono a prestito firmano l’impegno scritto di creare occupazione?”
Un altro aspetto importante riguarda la cassa integrazione. “La cassa integrazione ha superato il miliardo di ore. È denaro che è sacrosanto spendere per sostenere le famiglie, per porre un argine alla disperazione. Tuttavia, invece di pagare 750 euro al mese con il vincolo di non fare nessun altro lavoro, si potrebbe pensare di aggiungere 300/ 400 euro a quei 750 e convertirli, così, in un salario pagato dallo Stato: lo scopo sarebbe quello di far assumere da imprese non profit, imprese private, servizi per l’impiego, comuni e regioni le persone in cassa integrazione che sono disposte a fare altri lavori. In questo modo, si produrrebbe ricchezza e molti soggetti da passivi diverrebbero attivi. Pensiamo ai benefici economici che si genererebbero attraverso i cosiddetti moltiplicatori”.
Le risorse potrebbero essere ricavate, poi, dal rivedere spese apparentemente insensate. L’idea di comprare un cacciabombardiere, che pare pure pessimo dal punto di vista strategico e militare, impegnando circa 15 miliardi, a fronte dello scandalo disoccupazione, a me pare uno scandalo per certi aspetti altrettanto grave”.
Infine, sul piano del fisco, non si può prescindere dall’economia sommersa. “L’economia sommersa c’è da ogni parte, ma in Francia, Germania, Gran Bretagna, è tra il 5 e il 10% del Pil, mentre in Italia è al 22% del Pil. Tra l’altro, con la crisi, i tagli alle pensioni e le riforme cosiddette del mercato del lavoro, l’economia sommersa ha fatto ulteriori passi avanti e fornisce incentivi molto convincenti a chi deve fare i conti con ogni singolo euro per arrivare alla fine del mese. Ridurre l’economia sommersa al livello di Francia o Germania significherebbe, per lo Stato, incassare almeno 60 o 70 miliardi l’anno di maggiori imposte di vario genere, dall’Iva alle imposte dirette”. 

Dal sito www.sbilanciamoci.info

sabato 16 febbraio 2013

Solidarietà al popolo greco.

Desidero riproporre sul mio blog l'appello di Ernesto Galli Della Loggia, pubblicato sul Corriere della Sera del 2 febbraio 2013, per rivendicare una stagione di solidarietà con il popolo greco, per tutto ciò che è costretto a subire dalla Comunità Internazionale e dalle Istituzioni economiche a partire dalla Bce e dal Fondo monetario.
I dati in esso contenuti ci indicano come a pochi chilometri da noi si sta consumando una tragedia sociale che colpisce i più deboli a partire dai bambini.
Non possiamo restare inerti.
Vi invito, facciamolo girare. 

giovedì 14 febbraio 2013

La relazione della Commissione di indagine parlamentare sulle "Morti Bianche"

Presentata finalmente la Relazione finale sull’attività svolta dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro, le cosiddette “morti bianche”. La Relazione è stata approvata dalla Commissione nel corso della seduta del 15 gennaio 2013.Sono tra gli obiettivi dell'inchiesta: 
1) l’accertamento della dimensione del fenomeno degli infortuni sul lavoro, con particolare riguardo al numero delle cosiddette 'morti bianche', alle malattie, alle invalidità e all’assistenza alle famiglie delle vittime; 
2) le cause degli infortuni sul lavoro con particolare riguardo alla loro entità nell’ambito del lavoro nero o sommerso e al doppio lavoro; 
3) il livello di applicazione delle leggi antinfortunistiche e l’efficacia della legislazione vigente per la prevenzione degli infortuni, anche con riferimento alla incidenza sui medesimi del lavoro flessibile o precario.La diminuzione degli infortuni del 2011 si accompagna ad un lieve aumento dello 0,5 per cento della massa retributiva accertata per l’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali e quindi ad un livello di occupazione da ritenersi stabile.Su un arco temporale piu` ampio, si conferma il trend decrescente degli infortuni nel loro complesso, che tra il 2002 ed il 2011 si sono ridotti di circa il 38,0 per cento, passando da 1.614 a 1.002.Per quanto riguarda gli infortuni mortali, nel 2011 rispetto all’anno precedente si rileva una diminuzione sensibile nei servizi (-9,4 per cento) e nell’industria (-3,7 per cento), mentre l’agricoltura registra purtroppo un aumento del 2,7 per cento. Tra i settori più importanti, una riduzione molto elevata si è verificata nei trasporti (-30,7 per cento), nei servizi alle imprese e attivita` immobiliari (-26,2 per cento) e nelle costruzioni (-10,6 per cento). Invece aumenti rilevanti dei decessi per infortuni si sono avuti nella meccanica (+27,3 per cento) e nella metallurgia (+19,0 per cento).Per quanto riguarda la distribuzione territoriale del fenomeno infortunistico, la riduzione registrata a livello nazionale (-6,6 per cento tra il 2010 e il 2011) ha interessato tutte le aree del Paese, in maniera crescente dal Nord al Sud (dal -6,1 per cento del Nord-Ovest al -8,1 per cento del Mezzogiorno, passando per il -6,2 per cento del Nord-Est e il -6,4 per cento del Centro), quest’ultimo in presenza di un calo occupazionale dello 0,1 per cento. Considerando le varie Regioni, praticamente quasi tutte vedono contrarsi il numero degli infortuni con risultati piu` significativi in Molise (-12,5 per cento), Campania (-11,1 per cento), Umbria (-10,4 per cento) e Basilicata (-10,2 per cento). Nel Nord continua a concentrarsi oltre il 60 per cento degli infortuni, essendo d’altra parte il territorio che assorbe la maggior parte dell’occupazione (52 per cento del totale nel 2011). Le Regioni con maggior numero di denunce di infortunio si confermano Lombardia (127.007 casi), Emilia-Romagna (99.713) e Veneto (81.217): tre regioni che concentrano da sole il 42 per cento dell’intero fenomeno. Per quanto riguarda i casi mortali, la diminuzione del 5,4 per cento registrata a livello nazionale fra il 2010 e il 2011 si presenta in maniera molto piu` accentuata nel Mezzogiorno (-14,9 per cento, 48 vittime in meno) e piu` contenuta nel Nord-Ovest (-2,2 per cento) e nel Centro (-0,5 per cento), mentre il Nord-Est e` praticamente stazionario (+0,4 per cento, 1 vittima in piu`).A livello territoriale, il 42,3 per cento degli infortuni a lavoratori stranieri avviene nel Nord-Est e ben il 75 per cento al Nord. Nel Mezzogiorno si registrano il 7,1 per cento delle denunce in complesso e il 14,5 per cento degli eventi mortali. Per quanto riguarda le regioni, gli infortuni si concentrano ovviamente in quelle a maggior maggior densita` occupazionale: si tratta di Lombardia (24.981 denunce nel 2011, pari al 21,6 per cento del complesso), Emilia-Romagna (22.404) e Veneto (17.157) che insieme totalizzano il 55,8 per cento delle denunce e il 44,9 per cento dei decessi. Per i casi mortali, pero`, nel 2011 emerge il Lazio con ben 19 morti.Uno degli argomenti di maggiore rilievo affrontati nell’inchiesta della Commissione è quello della sicurezza sul lavoro nel settore degli appalti e subappalti. Anche se le disposizioni vigenti proibiscono espressamente di effettuare ribassi sui costi per la sicurezza nelle gare d’appalto, proprio al fine di garantire le massime tutele per i lavoratori, nella pratica questo divieto viene spesso aggirato, soprattutto attraverso la catena dei subappalti, che quanto più si allunga tanto più rende difficili i controlli. La situazione si riscontra soprattutto negli appalti del settore privato, per il quale la legge non impone procedure di gara o meccanismi di selezione degli appaltatori, essendo tutto basato sulla libera contrattazione delle parti: la conseguenza è che normalmente i committenti scelgono le imprese appaltatrici che offrono i prezzi più competitivi, magari a scapito della qualità o di altri aspetti come le tutele della sicurezza sul lavoro.

domenica 10 febbraio 2013

Formazione universitaria: lo spread che mi fa più paura.

Nei giorni scorsi il Consiglio Nazionale universitario ha pubblicato un rapporto nel quale descrive un mondo accademico in crisi: crollo delle iscrizioni, tagli ai bilanci degli atenei, riduzione del personale e dell'offerta formativa.
Una situazione al limite del collasso. 
Tra il 2003 e il 2012 le iscrizioni nelle università italiane sono diminuite del 17%, perdendo 58 mila studenti.
La causa principale del tracollo è rappresentata dalla crisi finanziaria, perchè sono sempre più le famiglie che non sono più in grado di mantenere per anni un figlio che studia, il numero tende ad aumentare.
A ciò va aggiunto la drastica riduzione delle borse di studio per gli studenti meritevoli e l'aumento dei costi di mantenimento degli studenti fuori sede.
Da sempre abbiamo considerato l'istruzione la precondizione per la mobilità sociale, per consentire alle classi meno abbienti di accedere ad una vita migliore ma i dati del Cun ci indicano che ormai gran parte della popolazione non può più accedere alla formazione universitaria e che la stessa tende, per ovvie ragioni di bilancio, a peggiorare la propria qualità.
Tutti i paesi hanno cercato di non tagliare le risorse all'istruzione e alla ricerca, ritenendo che gli investimenti in questi settori fossero strategici per uscire dalla crisi.
In Italia, con la Gelmini prima e con il governo tecnico dopo, si è fatto tutto il contrario.
La formazione è stata vista come un costo che andava ridotto, così è stato.
Pagheremo carissimo questa scelta miope che ci fa ritornare indietro di decenni.
Forse è questo lo spread che dovrebbe preoccuparci di più.

sabato 9 febbraio 2013

Quale deontologia giudiziaria? Dal Congresso di Magistratura Democratica.

Nelle settimane scorse si è tenuto il Congresso nazionale di Magistratura Democratica, l'associazione dei magistrati che, per brevità e comodità giornalistica, sono considerati di sinistra.
A leggere gli atti e gli interventi si ricava la certezza che il Congresso ha rappresentato l'occasione di un approfondimento dei temi di cui, spesso con superficialità, tutti parlano.
I magistrati si sono interrogati sul loro essere magistrati in una società in continua evoluzione, sul loro ruolo, sulla loro professione, sul loro futuro teso a garantire l'applicazione della legge.
Sono rimasto particolarmente colpito dall'intervento del prof.Luigi Ferrajolo, dall titolo "Nove massime di deontologia giudiziaria".
Non conoscevo il prof.Ferrajolo, il suo profilo scientifico, la sua levatura culturale, il fatto che è stato allievo di Norberto Bobbio ma la lettura del suo intervento mi ha aperto un orizzonte nuovo sulla magistratura che va aldilà delle "piccole" polemiche sulla opportunità che i magistrati si candidino, sul rapporto con i media, sul loro protagonismo.
Tali ragioni mi inducono a riproporre l'intervento, consigliandone la lettura.

La narrazione e i fatti. Il governo Meloni fa scuola

NARRAZIONE: “si introduce un esonero dal versamento del 100 per cento dei contributi previdenziali ed assicurativi a carico del datore di la...