Quattro milioni di senza lavoro, decine di
miliardi di reddito perduto, la crisi che non finisce mai,
disoccupazione che crea disoccupazione. Ma altre politiche sono
possibili, per il lavoro, la spesa pubblica, il welfare, secondo Luciano Gallino
Appese alle pareti della casa di Luciano Gallino, le
foto della moglie Tilde mescolano molteplici piani attraverso giochi di
specchi, spingendosi oltre la percezione di un istante e cogliendo la
sfuggente complessità d’insieme. È uno sforzo, questo, che si ritrova
poco più in là, negli scaffali ricolmi di libri del professore, perché
afferrare la complessità, arrivare al cuore delle cose, necessita di uno
studio meticoloso e incessante. E spiegarla, poi, richiede un impegno
altrettanto esigente, senza sosta, né risparmio: un impegno generoso,
che passa per conferenze in Italia e all’estero, interviste e un nuovo
libro per raccontare cos’è accaduto e come mai la gente continua a farlo
accadere. Nel contesto odierno, dominato da semplificazioni
populistiche e una visione neoliberista talmente radicata e potente da
riuscire nel paradosso di gestire l’incendio dopo aver appiccato il
fuoco, la voce di Luciano Gallino è un punto di riferimento prezioso per
tracciare la rotta da seguire.
Una rotta che nasce dalla
necessità del lavoro. “In Italia, ci sono circa quattro milioni di
persone fra disoccupati e non occupati. Di conseguenza, una ricchezza
pari a decine di miliardi l’anno non viene prodotta e non diventa
domanda, commesse per le imprese, consumi. Il risultato è che la
disoccupazione crea disoccupazione”.
Per creare occupazione
bisogna seguire l’esempio di Roosevelt. “Con il New Deal, lo Stato si è
impegnato a creare direttamente occupazione e in alcuni mesi furono
assunti milioni di persone”. Un New Deal italiano permetterebbe non solo
di creare ricchezza, ma anche di risolvere annosi problemi. A
cominciare dal suolo. “Il dissesto idrogeologico riguarda più di un
terzo del Paese. È un campo in cui i soldi si trovano sempre a
posteriori, quando sono stati distrutti o allagati interi quartieri o
quando ci sono frane, morti. Allora sì che si trovano i miliardi per
riparare i danni. Sarebbe meglio spenderli prima, oculatamente, in opere
da individuare”.
Prioritaria è anche la terribile situazione
delle scuole. “Il 48% delle scuole italiane non ha un certificato che
assicuri che l’edificio è a norma dal punto di vista della sicurezza
statica. È possibile che i ragazzi italiani vadano in scuole metà delle
quali non è a norma dal punto di vista della sicurezza? Non si tratta di
pavimenti sconnessi o rubinetti che perdono, o servizi inadeguati, ma
di muri, tetti, fondamenta, che bisognerebbe rivedere e rimettere a
norma”.
La miopia riguarda anche il potenziale punto di forza
dell’Italia. “Il degrado del nostro immenso patrimonio culturale è per
molti aspetti sotto gli occhi di tutti. Negli anni si è puntato a
migliorare i punti di ristoro nei musei, insistendo sulla fruibilità da
parte di pubblici sempre più vasti, invece di intervenire sulla
catalogazione digitale, sulla tutela effettiva, sulla custodia.
Un’azione mirata può creare centinaia di migliaia di posti di lavoro”.
C’è
poi il problema della riconversione del modello produttivo. “Il modello
produttivo attuale è finito nell’estate del 2007. È impensabile che i
posti di lavoro che si sono persi in questi anni siano ricostituiti,
ripercorrendo lo stesso modello produttivo. Processi come l’automazione e
la razionalizzazione hanno soppresso quote impressionanti di posti di
lavoro e molte imprese si dirigono sempre di più verso Paesi in cui i
salari, le condizioni ambientali o fiscali sono più favorevoli.
Occorrerebbe pensare a forme di ecoindustria, cercando di evitare errori
e compromessi che hanno, in alcuni casi, caratterizzato lo sviluppo di
nuovi settori, come ad esempio si è visto con la creazione di parchi
eolici”.
Una riconversione che riguarda anche l’agricoltura.
“Anche qui, l’epoca in cui la lattuga del Cile o i pomodori di un altro
Paese facevano 10 o 20 mila km prima di arrivare sulla tavola di
qualcuno probabilmente è finita. Il costo dei carburanti, degli aerei e
della logistica stanno in qualche modo imponendo forme di consumi
agricoli, consumi alimentari che non saranno a km zero, ma certamente
non a km 10 mila o 20 mila, come è stato invece per molti anni. Il
ministero dell’agricoltura dovrebbe occuparsi della riduzione dei km che
pomodori, lattuga e formaggi e altro percorrono prima di arrivare sulle
nostre tavole”.
Per creare occupazione, l’ideale sarebbe
un’agenzia centrale. “So che a molti sale la temperatura quando sentono
parlare di Stato che occupa le persone. Bisognerebbe creare un’agenzia
centrale che determina i limiti e che incassa i soldi da varie fonti,
magari appunto dallo Stato stesso o da una rivisitazione degli
ammortizzatori sociali. L’assunzione diretta può essere affidata ai
cosiddetti territori, al non profit, al volontariato, ai servizi per
l’impiego, alla miriade di entità locali, comprese piccole e medie
imprese”.
L’occupazione diretta servirebbe molto di più dei
soliti incentivi. “Una miriade di rapporti e documenti testimoniano che,
se voglio creare un posto di lavoro, è molto più conveniente dare mille
euro al mese a uno che lavora piuttosto che trasformarli in sconti
fiscali, contributi alle imprese, nel caso assumano qualcuno.
L’assunzione diretta ha un effetto immediato sulla persona e
sull’economia, perché il giorno dopo che ho versato a qualcuno mille
euro di stipendio, quello li spende contribuendo così al lavoro di
qualcun altro. L’incentivo all’impresa, lo sgravio fiscale, la riduzione
del cuneo fiscale e altre cose del genere hanno, invece, effetti molto
più ritardati”.
E sotto attacco finirebbero ancora i meccanismi
di protezione sociale. “Quando si parla di riduzione del cuneo fiscale,
si ha in mente la riduzione dei contributi per le pensioni, la sanità e
altro. La riduzione dei contributi implica che qualcuno pagherà ticket
sanitari più elevati, magari a fronte di mezzi familiari scarsi, o che
subirà un’ulteriore riduzione della pensione. Si annuncia di ridurre il
cuneo fiscale, ma non si precisa come si recuperano quei contributi che
vengono a mancare”. Un modo sottile per continuare a prosciugare il
welfare.
Ma come finanziare gli interventi proposti? Per capirlo,
bisogna ragionare su vari aspetti. Innanzi tutto il ruolo della Banca
Centrale Europea. “Noi non disponiamo di una moneta sovrana, dipendiamo
da una moneta che per certi aspetti è una moneta straniera. Non vuole
essere una polemica contro l’euro, perché le polemiche contro l’euro
sono semplicemente idiote e non vorrei minimamente essere accostato a
quelle. Resta, però, il fatto che, mentre la Federal Reserve può creare
quanto denaro vuole, noi non possiamo prendere in prestito soldi
direttamente dalla Banca centrale per creare occupazione”.
Il
problema è che i soldi ci sono, ma non arrivano a destinazione. “Tra il
novembre 2011 e il febbraio 2012, la BCE ha prestato alle banche 1.100
miliardi di euro, con un interesse dell’1%. E li ha prestati senza
chiedere nulla. Alla fine, si è scoperto che soltanto un rivoletto di
quei 1.100 miliardi è finito alle imprese, al lavoro, all’economia
reale”. E allora? “Allora, è davvero politicamente impossibile
pretendere in sede europea che la BCE presti soldi soltanto se questi
vengono destinati, attraverso le banche, all’economia reale e se le
imprese e le società non profit che li prendono a prestito firmano
l’impegno scritto di creare occupazione?”
Un altro aspetto
importante riguarda la cassa integrazione. “La cassa integrazione ha
superato il miliardo di ore. È denaro che è sacrosanto spendere per
sostenere le famiglie, per porre un argine alla disperazione. Tuttavia,
invece di pagare 750 euro al mese con il vincolo di non fare nessun
altro lavoro, si potrebbe pensare di aggiungere 300/ 400 euro a quei 750
e convertirli, così, in un salario pagato dallo Stato: lo scopo sarebbe
quello di far assumere da imprese non profit, imprese private, servizi
per l’impiego, comuni e regioni le persone in cassa integrazione che
sono disposte a fare altri lavori. In questo modo, si produrrebbe
ricchezza e molti soggetti da passivi diverrebbero attivi. Pensiamo ai
benefici economici che si genererebbero attraverso i cosiddetti
moltiplicatori”.
Le risorse potrebbero essere ricavate, poi, dal rivedere spese apparentemente insensate. “L’idea
di comprare un cacciabombardiere, che pare pure pessimo dal punto di
vista strategico e militare, impegnando circa 15 miliardi, a fronte
dello scandalo disoccupazione, a me pare uno scandalo per certi aspetti
altrettanto grave”.
Infine, sul piano del fisco, non si può
prescindere dall’economia sommersa. “L’economia sommersa c’è da ogni
parte, ma in Francia, Germania, Gran Bretagna, è tra il 5 e il 10% del
Pil, mentre in Italia è al 22% del Pil. Tra l’altro, con la crisi, i
tagli alle pensioni e le riforme cosiddette del mercato del lavoro,
l’economia sommersa ha fatto ulteriori passi avanti e fornisce incentivi
molto convincenti a chi deve fare i conti con ogni singolo euro per
arrivare alla fine del mese. Ridurre l’economia sommersa al livello di
Francia o Germania significherebbe, per lo Stato, incassare almeno 60 o
70 miliardi l’anno di maggiori imposte di vario genere, dall’Iva alle
imposte dirette”.
Dal sito www.sbilanciamoci.info
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