venerdì 29 giugno 2012

"Con i soldi degli altri" di Luciano Gallino (Einaudi)

Il libro scritto da Luciano Gallino all'indomani della crisi finanziaria globale del 2008 rimane attualissimo e prezioso per comprendere le ragioni dello stato perdurante di confusione dell'economia, che a tre anni di distanza non solo non si è ancora ripresa, ma sembra sull'orlo di una nuova e ancor più devastante caduta. La finanza ha preso il comando dell'economia e gli obiettivi di brevissimo periodo, quelli di investitori che gestiscono "i soldi degli altri" e sono stimolati a farli fruttare il più possibile nel minor tempo possibile, hanno schiacciato qualsiasi visione di medio-lungo termine e rischiano ormai di divorare il sistema stesso. I molti luoghi comuni sulle virtù della autoregolamentazione del mercato e sui vantaggi di una deregolamentazione della finanza si sono dimostrati infondati, e il mondo attraversa una stagione di crescente ineguaglianza ed insicurezza socio-economica.
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[scheda antologica a cura di Andrea Spanu]
 
 
Introduzione - I fallimenti dell'economia mondo e i soldi degli altri
 
Per quanto la rete delle cause e concause [dei fallimenti dell'economia mondo] sia complessa, simili fallimenti sono riconducibili principalmente a due sviluppi correlati. Il primo in ordine di tempo è stata la completa de-regolazione dei movimenti di capitale, dei mercati finanziari e dell'ambito di attività delle banche che è partita dagli Stati Uniti nel 1974 per essere poi adottata anche da tutti i paesi europei negli anni Ottanta. La de-regolamentazione dei movimenti di capiale ha consentito alle istituzioni finanziarie ogni sorta di sregolatezza, poiché gran parte delle loro attività diventa invisibile alle autorità di sorveglianza, vuoi per la complessità dei prodotti che le prime inventano, vuoi perché grosse quote di questi ultimi circolano fuori bilancio, essendo considerati contratti privati, tipo i derivati scambiati "al banco" senza alcun intermediario. La crisi finanziaria esplosa tra l'estate e l'autunno 2008, con il dissesto di dozzine di istituzioni di calibro mondiale e del sistema finanziario alternativo che avevano costruito, con ricadute drammatiche su famiglie e collettività, ha mostrato a quali gravissimi pericoli la deregolamentazione espone l'economia mondiale. [...] Una massa enorme di risparmio, equivalente all'incirca al Pil del mondo [...] viene al presente gestita senza alcun controllo di merito né [...] alcuna valutazione di responsabilità nei confronti di qualunque soggetto che non sia compreso tra i loro sottoscrittori, e talora nemmeno nei confronti di questi, da enti finanziari quali fondi pensione, fondi di investimento e compagnie di assicurazione, più vari tipi di fondi speculativi. Enti accanto ai quali e dietro molti dei quali (nel senso che loro stesse li hanno istituiti) operano le banche dei maggiori paesi. Sono enti che di mestiere investono quotidianamente denaro di proprietà altrui, detti investitori istituzionali per distinguerli da altri tipi di investitori che così non fanno, quali singole persone, imprese o enti pubblici. Tranne che negli Stati Uniti, ancora alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso il peso degli investitori istituzionali nell'economia mondo era limitato; è diventato formidabile in appena vent'anni. Un paradossale effetto perverso è stato generato dalla combinazione [degli] sviluppi testè richiamati: il sistema finanziario mondiale ha subito una trasformazione da strumento dell'economia reale a suo padrone, e in luogo di sostenere la prima, il risparmio risulta da ultimo impiegato contro di essa" (pagg. 16-18)
 
La concentrazione del risparmio nel capitale degli investitori istituzionali
 
Se il totale del capitale azionario detenuto dagli investitori istituzionali si avvicina alla metà di quello esistente nel mondo, ne consegue che pur con ampie variazioni al disopra e al disotto di tale media un rapporto analogo si dovrebbe osservare nei diversi paesi. E' precisamente quello che avviene. Nel 2006 i soli investitori istituzionali americani detenevano oltre il 60%, in valore, di tutte le azioni emesse in Usa. A tlae quota va aggiunta quella degli investitori esteri. Lo stesso anno gli investitori nazionali ed esteri possedevano oltre il 60% del caitale azionario delle prime 40 società francesi, della quale quota quasi la metà (il 46%) era detenuta da investitori esteri, un primato; il 55% delle azioni circolanti nel Regno Unito; il 45% delle azioni circolanti in Germania; il 25-30% di quelle trattate sulla borsa italiana. Anche sotto questo profilo si ritrovano zone di straordinaria concentrazione finanziaria. [...] La ristretta frazione di classe dei manager degli investitori istituzionali, che fruisce della piena collaborazione di un'altra frazione, i manager delle imprese quotate, muove liberamente da una parte all'altra del mondo decine di trilioni di dollari e di euro, senza in realtà rispondere in concreto a nessun portatore di interesse; nemmeno agli investitori di prima istanza, i piccoli risparmiatori. Mai tanto potere economico è stato concentrato, per vie legali e istituzionali, nelle mani di così pochi individui, come sono i capitalisti per procura; e mai esso è stato esercitato in modo altrettanto poco visibile e comprensibile per le popolazioni del mondo su cui ricadono le conseguenze delle loro strategie: conseguenze che appaiono positive in una prospettiva ravvicinata e per determinati strati di popolazione, mentre risultano sovente inefficienti o dannose se le si valuta in una prospettiva più ampia e si considerano anche altri strati sociali. Dissociate, in ogni caso, dalle effettive necessità di investimento dell'economia mondo.  (pp.45-47)
 

Cose dette 74 anni fa.

Eventi infelici accaduti in altri paesi ci hanno insegnato da capo due semplici verità in merito alla libertà d’un popolo democratico.
La prima verità è che la libertà di una democrazia non è salda se il popolo tollera la crescita d’un potere privato al punto che esso diventa più forte dello stesso stato democratico.
Questo, in essenza, è fascismo - un governo posseduto da un individuo, un gruppo, o qualsiasi altro potere privato capace di controllarlo.
La seconda verità è che la libertà di una democrazia non è salda se il suo sistema economico non fornisce occupazione e non produce e distribuisce beni in modo tale da sostenere un livello di vita accettabile.
Entrambe le lezioni ci toccano.
Oggi tra noi sta crescendo una concentrazione di potere privato senza uguali nella storia. Tale concentrazione sta seriamente compromettendo l'efficacia dell’impresa privata come mezzo per fornire occupazione ai lavoratori e impiego al capitale, e come mezzo per assicurare una distribuzione più equa del reddito e dei guadagni tra il popolo della nazione tutta.
Franklin Delano Roosevelt
Dal discorso al Congresso degli Stati Uniti del 29 aprile 1938

giovedì 28 giugno 2012

La flessibilità per alcuni e non per tutti.

La riforma del mercato del lavoro, così come disegnata dalla coppia Monti-Fornero, e non solo,  è legge dello stato.
E' l'Europa che ce lo chiede, occorre rendere flessibile il mercato del lavoro per creare nuova occupazione, si difende il lavoro ma non il posto fisso.
Quante volte abbiamo letto queste dichiarazioni, tutte con l'intento di inculcarci l'idea che pensare a una occupazione dignitosa, con i diritti e le tutele che ne conseguono, fosse un retaggio ideologico del XX secolo.
Ministri, ricercatori, imprenditori e molti politici a spiegare che il mondo del lavoro è cambiato, che occorre guardare al futuro.
Per quanto mi riguarda, non riusciranno a convincermi. Se, però, fosse giusta l'opinione dei tanti che con il cu...... degli altri pontificano, mi pongo alcune domande.
  • Perchè le farmacie devono essere a numero chiuso? 
  • Che aggravio economico si avrebbe per lo Stato, se venisse liberalizzata la vendita dei farmaci?
  • Perchè i medici di famiglia devono essere a numero chiuso?
  • Quale aggravio economico si avrebbe per lo Stato, se le convenzioni con i medici di famiglia non fossero a numero chiuso, in considerazione che i medici vengono pagati sulla base del numero dei mutuati? (Lo stesso a valere per i pediatri)
  • Perchè il numero dei notai deve essere fissato dalla legge?
  • Quale aggravio economico si avrebbe per lo Stato, se ci fossero il doppio o il triplo di notai?
Tali domande potrebbero moltiplicarsi per ognuno degli orticelli (sono tanti) che si sono determinati negli anni.
A questo punto un'ultima domanda:
  • E' solo la fantomatica "rigidità" del lavoro dipendente a bloccare la crescita economica nel nostro Paese?


Il testo della "riforma" del mercato del lavoro


VERGOGNA

La Camera dei Deputati, nella seduta del 27 giugno 2012, ha approvato il Disegno di Legge di Riforma del mercato del lavoro. Dopo la promulgazione del Capo dello Stato e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, quella che chiamano riforma diverrà legge.

martedì 19 giugno 2012

A sua Santità Benedetto XVI

Sua Santità,
ho letto che nei prossimi giorni si recherà nelle zone terremotate del nostro Paese.
Sarà un'occasione per constatare di persona i danni prodotti dal sisma e di portare una parola di conforto alle migliaia di cittadini, che hanno visto la loro vita sconvolta dal sisma.
Ciò che desidero chiederLe è di pretendere sia dalle autorità ecclesiastiche sia da quelle civili che la sua visita pastorale, dall'alto valore cristiano, non abbia costi economici rilevanti.
Non si tratta, mi creda, di un invito anticlericale, avevo anche chiesto che non si svolgesse la parata militare del 2 giugno ma solo il desiderio che tutte le somme disponibili siano destinate all'opera di ricostruzione per ridare un futuro alle persone e a quelle terre.
Confidando sulla Sua sensibilità, voglia gradire i miei saluti
                                                                                             Pippo Di Natale

Le scelte e il mercato.

Solo 10 giorni fa fu detto che sarebbe stato necessario salvare le banche spagnole. I mercati avrebbero capito la volontà dell'Europa di difendere la propria moneta.
Non è stato così.
Poi è stata la volta delle elezioni in Grecia.
Tutti a fare pressioni, tutti a dire che la vittoria di Syriza avrebbe provocato uno tsunami nel vecchio continente.
Ora ci dicono che sarà necessario aspettare i risultati del G20.
Poi ci diranno che tappa fondamentale sarà indispensabile attendere le conclusioni del Consiglio Europeo.
Ormai è chiaro o si cambiano le regole o nessuna scelta sarà considerata dai mercati sufficiente.

lunedì 18 giugno 2012

L'oltre dell'http:// lavoroeoltre.blogspot.it

Sono trascorsi ormai 18 mesi da quando ho iniziato questa avventura. 
Pensavo che potesse rappresentare un occasione per socializzare delle conoscenze, per informare su quanto accade nel mercato del lavoro.
I risultati sono stati, a mio avviso, notevolmente positivi.
Le quasi 14.000 mila pagine visitate e, ogni tanto, qualche complimento da chi lo ha visitato mi spingono a provare a dare senso anche all'oltre che compare nel nome di questo blog.
Mi piacerebbe trasformare questo blog in un diario di ciò che penso, sperando che questi pensieri in libertà possano trovare la vostra condivisione ma anche la vostra critica aprendo, se il caso, anche un confronto che ci possa fare crescere.
Nulla di presuntuoso, solo il desiderio di esprimere liberamente la propria opinione.
So bene, come scrive il prof. Mattei nel Manifesto dei beni comuni che la politica e l'impegno non possono fare a meno della fisicità di un movimento ma so anche che la libera circolazione delle idee può essere utile a fare crescere la consapevolezza a non delegare nessuno, a far vivere in tutti noi il desiderio di migliorare la società nella quale viviamo.
Lo dobbiamo non solo a noi stessi ma anche, soprattutto, a chi verrà dopo di noi.
Ci riusciro? Me lo auguro. Io ce la metterò tutta.

sabato 16 giugno 2012

"Beni comuni" di Ugo Mattei

Non voglio apparire un intellettuale ma ritengo di consigliare la lettura di questo libro, cha alla luce delle ultime decisioni del governo Monti assume una straordinaria attualità.
Cosa sono i "beni comuni" perchè li dobbiamo difendere e non consentire che essi siano messi sul mercato.
Non è un problema economico ma una questione di libertà.
Difendere i beni comuni significa difendere la democrazia nel nostro Paese.

Dall'introduzione......

"Quando lo Stato privatizza una ferrovia, una linea aerea o la sanità, o cerca di privatizzare il servizio idrico integrato (cioè l'acqua potabile) o l'università, esso espropria la comunità (ogni suo singolo membro prò quota) dei suoi beni comuni (proprietà comune), in modo esattamente analogo e speculare rispetto a ciò che succede quando si espropria una proprietà privata per costruire una strada o un'altra opera pubblica". In questo agile volume Ugo Mattei ragiona attorno a un tema di grande attualità internazionale perché pensare ai beni comuni significa "innanzitutto utilizzare una chiave autenticamente globale che pone al centro il problema dell'accesso e dell'uguaglianza reale delle possibilità su questo pianeta". Dalla lotta per l'università e la scuola pubblica a quella per l'informazione critica; dalle battaglie contro il precariato e per un lavoro di qualità a quelle contro lo scempio e il consumo del territorio; dalla lotta contro la privatizzazione della rete internet a quella contro le grandi opere (TAV, Dal Molin, Ponte sullo stretto), i beni comuni ci riguardano da vicino. Ugo Mattei li considera come riconquista di spazi pubblici autenticamente democratici, base per un pensiero politico e istituzionale nuovo e radicalmente alternativo fondato sulla qualità dei rapporti e non sulla quantità dell'accumulo. I beni comuni collocano la riflessione sul lungo periodo e sfidano finalmente, anche a nome delle generazioni future e di tutti gli altri esseri viventi... 

sabato 9 giugno 2012

I libri di Sbilanciamoci. Il lavoro in Europa

Dopo Il lavoro in Italia, ecco un nuovo “sbilibro”: Il lavoro in Europa, in collaborazione con l’Etui, l’Istituto sindacale europeo. 14 saggi che spiegano il sistema che ci ha portato alla crisi e le politiche per rilanciare l’occupazione, in alternative all’ortodossia neoliberista. Lo presentano i curatori dell’edizione italiana
Vista dalla “vecchia Europa”, la crisi che ha investito il sistema economico mondiale appare più drammatica che altrove. Secondo l’ultimo rapporto dell’Oil, l’Organizzazione internazionale del lavoro, nel mondo sono quasi 50 milioni i posti di lavoro ancora da recuperare dall’inizio della crisi. È in Europa però che si conta il saldo peggiore. Eurostat stima in quasi 25 milioni le persone in cerca di occupazione nello scorso mese di marzo. È in aumento la disoccupazione di lungo periodo, quella di chi non trova lavoro da almeno un anno e aumenta drasticamente la disoccupazione giovanile, che tocca punte del 50% in Spagna e in Grecia. A ben vedere, almeno per ora, è il Sud dell’Europa a essere nei guai: non vanno così male i paesi nordici e i paesi del “modello renano”, con tassi di disoccupazione ben al di sotto della media europea. Ancor più drammatica, forse, è la mancanza di una visione di lungo termine, l’incapacità da parte della classe dirigente europea di abbandonare definitivamente i sentieri dell’ortodossia neoliberista, benché abbiano mostrato di non saperci portare lontano. Trovare altre vie, tracciare altri percorsi, elaborare e adottare nuovi paradigmi è l’impegno più urgente che l’Europa si trovi ad affrontare. Di fronte a trasformazioni epocali, che hanno riconfigurato lo spazio politico, i criteri della cittadinanza, il funzionamento economico, le stesse aspettative di vita dei citta­dini, non possiamo continuare a esplorare un territorio sconosciuto con l’aiuto delle vecchie mappe, disegnate in tempi diversi e in risposta a bisogni differenti.

venerdì 8 giugno 2012

Popoli senza terra. Sinti, Rom, Camminanti di Sicilia

Ascoltando la radio mi sono imbattuto su un programma dedicato alla shoah. 
Milioni di ebrei uccisi in nome della razza ariana e di una nuova società. 
Accanto agli ebrei non dimentichiamo le centinaia di migliaia di "zingari" e con loro anche gli omossessuali, che hanno pagato un durissimo prezzo alle leggi razziali.
Rom, Sinti, di tutta Europa portati nei cami di concentramento e avviati nelle camere a gas.
Di quest'ultimi essendo popoli senza terra non si sono potute raccontare le storie, i percorsi, le memorie.
Gli zingari ci fanno ancora paura, la loro emarginazione ed esclusione è ancora forte.
Ma chi sono, da dove vengono, quali problemi si trovano a vivere, sono domande alle quale spesso, per convenienza, evitiamo di dare risposta.
Pubblico un documento del Ministero degli Interni che tenta anche se in maniera sintetica di dare una risposta al bisogno di conoscenza.
Conoscere significa vincere le paure e le diffidenze, conoscere è il primo passo per rispettare le minoranze, conoscere è rispetto per la dignità umana. Conoscere è garantire ai popoli senza terra un futuro che valga la pena vivere.


giovedì 7 giugno 2012

Luciano Gallino "La lotta di classe dopo la lotta di classe".

Ho terminato di leggere il libro del sociologo del lavoro Luciano Gallino, un libro-intervista nel quale si ripercorrono le vicende socio economiche degli ultimi anni. Con estrema lucidità viene spiegato ciò che accaduto. Una ridistribuzione della ricchezza che ha premiato i più ricchi, impoverendo la classe media e riducendo la mobilità sociale.
Una situazione al limite della sostenibilità. E' in atto una guerra di classe, per la prima volta nella storia dell'umanità sono i ricchi a condurla e non per difendersi o mantenere la propria condizione ma per spogliare i più deboli da ogni tutela e ridurre i diritti.

Pubblico un'intervista al prof.Gallino, uscita su Micro Mega

Il povero ragioniere Ugo Fantozzi, reduce da una delusione amorosa in ufficio, prese in mano le “letture maledette” del compagno Folagra, il rivoluzionario con la barba lunga e la sciarpa rossa emarginato da tutti. Mesi di studio, e all'improvviso, curvo sui libri accatastati in salotto, sbatté il pugno sul tavolo: «Ma allora mi han sempre preso per il culo!». Quasi come una rivelazione divina: Fantozzi aveva capito tutto.

Ecco, la lettura dell'ultimo lavoro di Luciano Gallino "La lotta di classe dopo la lotta di classe" (intervista a cura di Paola Borgna, editori Laterza) può sortire lo stesso effetto. Anche in un pubblico colto, sobrio e moderatamente di sinistra. Perché smonta uno a uno i dogmi dell'idea, anzi dell'ideologia moderna liberista, così trasversale, così apparentemente intangibile, come se non ci fossero altri schemi possibili all'infuori. E Gallino lo fa mettendo in fila dati, studi, e non opinioni. Senza facili populismi, senza scorciatoie preconfezionate. Spiegando che la lotta di classe esiste, eccome. Solo che si è ribaltata: è il turbo capitalismo che ha ingranato la quarta contro le conquiste dei movimenti operai ottenute fino agli anni ’70. E i lavoratori sono sempre più divisi al loro interno, impegnati in un’altra lotta, quella tra poveri.
Un testo imprescindibile per capire dove stiamo andando, e seguendo quali (folli) logiche. Un testo che a sinistra dovrebbe – o potrebbe, chissà – diventare una sorta di bibbia laica.
Era un'ottima occasione per parlarne direttamente col professore e sociologo piemontese.

Partendo dal tema del momento: dopo aver letto il libro sembra di capire che l'attacco all'articolo 18, ma anche semplici frasi come quella di Monti «le aziende non assumono perché non possono licenziare», siano in realtà parte di un disegno ben preciso: quella lotta di classe alla rovescia di cui parla nel libro. È così?


«Direi di sì. Si tratta di idee che circolano da decenni, che fanno parte della controffensiva iniziata a fine anni ’70 per superare le conquiste che i lavoratori avevano ottenuto a caro prezzo dalla fine della guerra. Riproposte oggi sembrano sempre più idee ricevute, piuttosto che analisi attinenti alla realtà. Dottrine neoliberiste imposte adesso con la forza, combattendo i sindacati, comprimendo i salari e tagliando le spese sociali».

Lei scrive: «La correlazione tra la flessibilità del lavoro – che tradotto significa libertà di licenziamento e insieme uso esteso di contratti di breve durata – e la creazione di posti di lavoro non è mai stata provata, se si guarda all’evidenza accumulatasi con i dati disponibili». Qui da mesi e mesi alla tv ci riempiono la testa col “modello danese”, poi quello tedesco... Ci fu la riforma Treu nel '96, poi quella Biagi, e ancora non sembra bastare. Allora forse la Cgil non dovrebbe firmare la riforma, anche se la clausola del reintegro venisse reintrodotta, perché è tutto l'impianto ad essere sbagliato...

«La Cgil è in una situazione molto difficile. Anche perché gran parte degli altri sindacati e dei media sono favorevoli a questa visione neoliberale. L’Ocse non è mai riuscita a provare l’esistenza di una correlazione tra flessibilità e maggiori posti di lavoro, e in alcune sue pubblicazioni arriva perfino ad ammetterlo. E anzi, c’è un aspetto paradossale: usando gli stessi indici dell’Ocse, si scopre che ad aumentare dovrebbe essere la rigidità, semmai. Perché dopo la riforma del 2003, che ha aumentato la cosiddetta flessibilità in Italia e che la rende superiore ad altri paesi come Francia, Germania e Inghilterra, i nostri indici occupazionali sono peggiorati».

La sinistra sembra giocare sempre in difesa. Passa per conservatrice. Che poi in effetti è vero, perché difende diritti acquisiti. Eppure il messaggio non passa, e se passa lo fa negativamente. “La vecchia sinistra, anti-moderna”. Il progresso sembra appannaggio di chi professa lo smantellamento del modello sociale. C'è un problema di comunicazione? Perché la sinistra ha così tante difficoltà a farsi capire da chi dovrebbe difendere?

«C’è un problema non grosso come una casa, ma come un grattacielo. Se a sinistra non c’è un partito di grande dimensioni che non difende il “Lavoro” significa che siamo davvero malmessi e che l’impresa diventa ancor più ardua. E poi la sinistra ha contro la maggior parte dei media e della classe politica, anche quella della “sinistra” stessa. Perché sono state introiettate quelle dottrine neoliberiste di cui prima. La lotta ideologica contro i sindacati per adesso ha vinto, culturalmente in primis. Basta vedere il calo degli iscritti al sindacato nei Paesi sviluppati. E questo ha inciso anche sulla partecipazione dei cittadini alla vita politica».

Verrebbe da dire che la fine delle ideologie è una grande bugia. Perché una è sicuramente rimasta, viva e vegeta....
«La fine delle ideologia è una delle più robuste e articolate ideologie in circolazione. È servita ad assicurare il dominio delle politiche economiche neoliberali, e anche la legittimazione di quelle politiche sul piano culturale e ideale. Gli slogan gli conosciamo bene: “ridurre la spesa pubblica”, “tagliare le imposte alle imprese e agli individui”, “occorre più flessibilità”, “meglio il lavoro temporaneo”, “il mercato deve guidare ogni immaginabile decisione, anche a livello locale”. Tutto questo ha avuto la meglio, anche nella cultura di una parte della sinistra. Conta poco che queste ricette siano sistematicamente sconfessate dalla realtà»

È interessante come il modello neoliberista abbia copiato da Gramsci la propria tendenza egemonica culturale. Lei lo ripete spesso. E poi spiega, e lo ha detto anche prima, come un pezzo di sinistra ne sia stata sedotta. Aggiungerei che alla sinistra hanno copiato anche l'internazionalismo, cioè la capacità di fare "gioco di squadra" a livello planetario. Come si fa a invertire la tendenza? Come si fa a imporre nuovamente una visione alternativa della società?

«È estremamente difficile. L’egemonia attuale è vincente sia sul piano della pratica, come lo vediamo ogni giorno, sia sul piano morale e culturale. L’austerità sta tagliando l’insieme delle condizioni di vita di milioni di persone, seminando recessione. E qui nasce un altro pericolo, cioè che politiche di questo genere fomentino l’estrema destra che urla contro la finanza, ma in modo assolutamente strumentale».

Il primo a parlare di “austerità” fu Enrico Berlinguer. Qualcuno, sempre a sinistra, ha ritirato fuori la cosa.
«Sì, ma erano altri tempi, altre situazioni, e quella parola usata dal segretario del Pci voleva dire un’altra cosa. Ora significa tagliare salari, posti di lavoro, spesa sociale e diritti. Allora era una critica al consumo. La crisi è nata anche per delle storture del modello produttivo. Non si può pensare di continuare a produrre sempre di più, all’infinito. Il progresso non consiste nell’avere cinque telefoni e tre automobili a famiglia, ma ha a che vedere con la qualità della vita, del tempo libero, del lavoro…»

Negli anni Settanta i giovani gridavano lo slogan "Lavorare meno, lavorare tutti". A un certo punto lei parla dei sindacati, e fa una critica a livello non solo europeo, ma mondiale: «Non si è sentito nessun sindacato, o gruppo di sindacati, europeo o americano, alzare la voce per dire che era inaudito che il salario orario minimo in Cina fosse di 75 centesimi di dollaro; e che è scandaloso che aziende europee e americane protestino perché quell’innalzamento da 65 a 75 centesimi non permette più loro di operare con profitto...». È sicuramente vero. Ma perché accade? Si è persa la solidarietà di classe? L'egoismo, l'interesse particolare, ha contagiato anche il sindacato? È questa l'ennesima vittoria del pensiero dominante?
«I sindacati hanno delle giustificazioni. La frammentazione delle attività produttive ha complicato l’attività sindacale. Un conto è avere un megafono per parlare a cinquemila operai tutti insieme, un conto è andarli a cercare in cinquanta fabbriche diverse con cento operai ciascuno. Però sì, a livello internazionale si è fatto poco. La necessità, adesso, è esportare diritti».

Il governo tecnico, anzi i governi tecnici in Europa, sono in realtà governi di destra. Lo chiarisce molto bene. Com'è possibile che il Pd lo sostenga e ne subisca il fascino anche per il futuro? Sembra un cerchio che si chiude. La dimostrazione che la sua analisi sul pensiero dominante è corretta.

«Concorrono diversi fattori. Un po’ perché la dottrina neoliberale, come dicevamo, ha fatto presa anche a sinistra. Poi c’è il timore di apparire agganciati a una storia di “vecchie ideologie”. C’è una questione di competenza: si è capito ben poco di perché è nata la crisi, sul come si è sviluppata, per colpa di chi o di cosa. E infine c’è un fattore di convenienza: l’Italia è in Europa, e in Europa si gioca con le regole del liberismo. Così qualcuno avrà pensato di far mettere la faccia ai “tecnici” rispetto alla richieste dolorose che Bruxelles richiedeva. Diciamo che può essere stato un grigio calcolo elettorale».

Lei cosa ne pensa dei No Debito? È possibile rifiutarsi di pagare?
«Il movimento non tiene conto dell’esistenza della Bce, che però non opera come una normale banca centrale: non può concedere prestiti, magari a basso tasso di interesse, agli stati membri o ad altre istituzioni. Questo perché il trattato di Maastricht lo proibisce. Abbiamo rinunciato alla sovranità monetaria entrando nella Ue, e quindi ci ritroviamo con una moneta straniera. Ecco, visto questo, non pagare il debito è impossibile. L’istanza è però moralmente valida, specie se si pensa alla dissennatezza del sistema finanziario, al fatto che i Paesi hanno speso 4,1 trilioni di euro per salvare le banche aumentando il proprio debito. Ma bisognerebbe chiedere subito una riforma del sistema finanziario. Sono stati fulminei a fare la riforma delle pensioni, a imporre diktat da occupazione militare alla Grecia, eppure da anni giace in un cassetto da anni una riforma di questo tipo. Per la quale dovremmo davvero batterci».

L’analisi del suo libro potrebbe diventare fondamentale per ridare fiato alla sinistra. Ho letto il "Manifesto per un soggetto politico nuovo", e mi sembra che il gruppo di intellettuali che l'ha redatto e firmato, tra cui lei, vada in quella direzione. Che reazioni ha avuto da parte dei partiti d’area?
«Ho l’impressione che siamo intorno a zero. Ma vorrei dire che non si tratta di buttare via i partiti, quanto di rinnovarli, saldando il ponte tra movimenti e organizzazioni politiche. Se i movimenti continuano a vedere i partiti come vecchie carrozze, e se i partiti vedono i movimenti come allegri ma inutili catalizzatori per le manifestazioni, il futuro non sarà certamente roseo».

Chiudo con una battuta. In chiusura lei scrive: «Con la caduta del socialismo reale è stato seppellito anche quel frammento di verità essenziale su cui era stata malaccortamente e colpevolmente innalzata la torreggiante megamacchina sociale che pretendeva di rappresentarlo. Quel frammento, che dopotutto sta alla base del movimento operaio da quando è cominciato, fin dall’inizio dell’Ottocento, era la ragione stessa della storia, o meglio la ragione che conferisce un senso alla storia. Era giusto che la torre cadesse, ma, cadendo, la torre ha sepolto tra le sue macerie anche quell’ultimo frammento che rappresentava la speranza di un rinnovamento della società intera. E questa è stata una perdita enorme». Lo sa che le daranno dello stalinista?

«È possibile e la cosa mi diverte anche. Perché cito dati ufficiali, molto spesso, del Congresso americano. Tutto questa significa che tra la realtà oggettiva delle cose e l’interpretazione che se ne dà c’è una distanza siderale. E ciò non depone certo a favore della maturità politica della nostra classe dirigente».

mercoledì 6 giugno 2012

Economia a mano armata. Il dossier sulle spese militari.

E' stato presentato, in concomitanza con il lancio mondiale del SIPRI Yearbook, Economia a mano armata, il dossier della Campagna Sbilanciamoci! sulle spese militari.
Interventi di Giulio Marcon, portavoce della campagna e Massimo Paolicelli, di Sbilanciamoci hanno presentato il libro bianco che analizza le spese militari sotto molteplici aspetti: dagli sprechi pubblici alla riconversione dell’industria militare, dall’esemplare caso Finmeccanica al commercio internazionale di armamenti, dalle missioni italiane all’estero ai rapporti tra crisi economica e spesa militare, senza tralasciare la dubbia utilità di alcuni sistemi d’arma come gli F35 e la relativa campagna di pressione “Taglia le ali alle armi” volta alla cancellazione della costruzione dei cacciabombardieri Joint Strike Fighter. Nel corso dell’incontro sono intervenuti anche il Senatore F. Ferrante, R. Troisi, della Rete Disarmo, Alessandra Mecozzi della FIOM, A. Nicotra.
Questi i dati principali che riguardano l’Italia: 30 miliardi complessivi di spesa (fonte Sipri), oltre 10 miliardi nei prossimi anni per 90 cacciabombardieri F35 e ben 1,4 miliardi di euro per le missioni militari all’estero. Tutto questo, quando si tagliano le risorse per il welfare, la scuola, la sanità, gli enti locali. Il rigore viene applicato ai cittadini, ma non alla casta dei militari.
La spesa militare globale nel 2011 ha continuato ad aumentare: dello 0,3% in termini reali rispetto al 2010, raggiungendo i 1.740 miliardi di dollari; il 75% della spesa mondiale per armamenti nel 2011 riguarda appena 10 Paesi e gli Stati Uniti si confermano leader della classifica con il 43% della spesa mondiale militare. La media globale della quota del Prodotto interno lordo destinato alle spese militari è del 2,6%.
Per citare altri numeri: i paesi europei nel loro complesso hanno circa 7 milioni di soldati (Stati Uniti 1 milione e mezzo), 45mila tra carri armati e mezzi di combattimento (Stati Uniti 34mila) e 3.500 aerei di combattimento (Stati Uniti 2mila). Tenuto conto delle ambiguità e anche della pericolosità di un esercito europeo slegato da un potere di controllo democratico – e oggi l’Unione Europea ha un drammatico deficit di democrazia – se si andasse verso una direzione di maggiore integrazione delle strutture di difesa europea, si potrebbe avere un risparmio complessivo di 100-150 miliardi di euro nei vari paesi, e anche in questo caso la somiglianza della cifra (130 miliardi) con quanto si è speso per l’ultimo salvataggio della Grecia (febbraio 2012) è abbastanza significativa.
L’obiettivo di questo dossier, scaricabile gratuitamente dal sito www.sbilanciamoci.org, è quello di fornire informazioni e analisi, dati e proposte su come ridurre la spesa militare e su come orientarla in senso sociale, riconvertendo l’industria militare e investendo nelle misure necessarie a fronteggiare la crisi, nel welfare, nell’ambiente, nel servizio civile e nella cooperazione internazionale, perché è possibile svuotare gli arsenali per riempire i granai. Tra le proposte della campagna: taglio di 10 miliardi in tre anni delle spese militari, riduzione da 190mila a 120mila gli organici delle Forze Armate, cancellazione del programma di costruzione ed acquisizione dei cacciabombardieri F35. Sbilanciamoci propone che i soldi risparmiati siano destinati ad un piano straordinario di ammortizzatori sociali e di sostegno al reddito per 300mila precari, alla messa in sicurezza di 3mila scuole e per consentire a 70mila giovani di poter svolgere il servizio civile.

Il dossier
dal sito www.sbilanciamoci.org

lunedì 4 giugno 2012

Il testo del disegno di legge sulla riforma del mercato del lavoro approvato dal Senato

Con quattro distinti voti di fiducia, il Senato ha approvato la riforma del mercato del lavoro voluta dal Governo Monti.
IL testo della legge adesso passerà alla Camera che potrà (vista l'esperienza) solo approvarla. Sarà legge dello stato.
Ormai quello che consideravamo bicameralismo perfetto si è nella prassi trasformato in mocameralismo. 
Discute solo una delle camere l'altra si limita solo a ratificare quanto fatto.
Siamo in presenza di una profonda modifica della Costituzione.
Fino adesso i commenti si sono limitati alla vicenda riguardante l'articolo 18 e alle modifiche apportate. 
In malafede si sono confusi i diritti con i privilegi, contrabbandando la possibilità di facilitare i licenziamenti come lo strumento che consentirà nuove assunzioni.
Aspettiamo con ansia di vedere i risultati.
Qualcuno non ha nascosto la propria gratitudine al ministro Fornero e alla sua caparbietà. Si vergogni. 
Modificare l'articolo 18 rappresenta un vulnus alla dignità delle persone che difficilmente potrà essere superato. 
Non si tratta di difendere un feticcio ma di rispetto della persona, ai suoi sentimenti, ai suoi valori.
Si può essere chiamati a fare dei sacrifici per il bene comune ma camuffare come bene comune la possibilità di licenziare è un imbroglio e chi lo sosteniene un imbroglione.





domenica 3 giugno 2012

Gela, dedicato ai gelesi.

Sono stato a Gela per partecipare alla lezione conclusiva di un corso organizzato dall'Auser Insieme della città su etica e politica, tenuto dal prof. Luciano Vullo.
In momenti come questi apprezzi la storia, la vitalità culturale di una città merdionale come Gela.
Ne apprezzi le persone, la loro voglia di apprendere e di cambiare, il desiderio di scrollarsi da dosso un marchio che molto spesso li accompagna.
Eppure, noi tutti, dovremmo essere riconoscenti. I gelesi, sono stati chiamatio a pagare un prezzo troppo oneroso allo "sviluppo" e alla "industrializzazione".
Loro ne hanno pagato il prezzo, noi ne abbiamo goduto i frutti.
Tale motivo mi ha indotto a pubblicare una ricerca condotta nel 2008/2009 dai proff.Pietro Saitta e Luigi Pellizzoni su "Lo chiamavano sviluppo, il complicato rapporto di Gela con l'Eni".
Senza sposare per intero le tesi proposte, lo studio offre notevoli spunti di riflessione che vale la pena approfondire.

 

sabato 2 giugno 2012

Grecia: Quale futuro? di Vincenzo Comito*



Da qualche settimana la Grecia è al centro dell’attenzione per le possibili conseguenze che la sua uscita dall’euro potrebbe avere. Le note che seguono sono poco più di un collage di alcune valutazioni che sono apparse sulla stampa internazionale a tale proposito.
I colpevoli della crisi
Chi sono i principali responsabili della crisi? Il team economico del Guardian (Economics blog, 2012) indica quattro attori, tutti coinvolti sia nel boom del paese che, poi, nelle difficoltà. Il primo colpevole viene indicato nei vari governi che, desiderosi di far avanzare l’economia, hanno spinto all’accumulo di un enorme debito e non hanno contrastato una drammatica perdita di competitività, nascondendo le vere cifre dei deficit di bilancio e dei livelli di indebitamento.
Un secondo personaggio è costituito dai mercati internazionali, che hanno irresponsabilmente prestato somme enormi al paese. Ma quando è risultato chiaro che il debito era arrivato a livelli assurdi, hanno provato a rimandare il giorno del giudizio, cercando di coprirsi in tutti i modi e aumentando le difficoltà del paese. Ma i primi due attori non hanno agito nel vuoto. Dietro di loro, l’eurozona non aveva norme e istituzioni adeguate. I governi europei, poi, non hanno cooperato per una risposta adeguata ai problemi. Infine, bisogna ricordare il ruolo del Fondo monetario internazionale che non ha agito in alcun modo per contribuire a governare la questione. I quattro attori citati se la caveranno in molti modi, lasciando invece nei guai le vere vittime, i greci meno agiati, la cui situazione continuerà a peggiorare negli anni che verranno, mentre il loro lavoro e i loro risparmi continueranno ad evaporare.
Le ipotesi in campo
W. Munchau (Munchau, 2012) analizza le quattro principali opzioni che si presentano oggi alla Grecia. La prima sarebbe quella di accettare una maggiore dose di austerità e di “riforme” come richiesto dal Fmi e dall’Ue, che esigono altri 11 miliardi di tagli alla spesa pubblica. Un rischio di tale opzione sarebbe quello, dice l’autore, di mantenere la Grecia in uno stato di depressione permanente e nella trappola del debito; ma certamente tale scelta non sarebbe sostenibile sul fronte politico e non appare comunque razionale.
La seconda sarebbe quella di proseguire con il piano citato soltanto sino a quando il paese raggiungesse un attivo primario e a questo punto fare default o rinegoziare il programma con Ue e l’Fmi. C’è comunque il rischio che anche tale opzione sia politicamente insostenibile.
La terza è quella delineata dal leader di Syriza, A. Tsipras, che vuole che la Grecia, senza uscire dall’euro, cancelli subito il programma di austerità, rovesci alcune delle riforme avviate – bloccando tra l’altro i licenziamenti nel settore pubblico e aumentando i salari - e consideri la possibilità di un default sul debito residuo; a questo proposito Tsipras sostiene che l’Ue negozierebbe sui termini sopra indicati, perché essa non ha alcun interesse a spingere la Grecia fuori dall’euro. Ma si tratta di una scommessa, afferma Munchau.
La quarta sarebbe infine quella di una uscita volontaria e immediata dal sistema.
L’autore esclude la prima opzione come la peggiore e inclina piuttosto per la seconda, mentre per quanto riguarda la terza, pur manifestando qualche simpatia in proposito, la giudica come troppo rischiosa.

La narrazione e i fatti. Il governo Meloni fa scuola

NARRAZIONE: “si introduce un esonero dal versamento del 100 per cento dei contributi previdenziali ed assicurativi a carico del datore di la...