Che fare dopo le elezioni? Più domanda, nuova
offerta, più lavoro e qualità degli interventi sono i punti chiave di
una politica capace di innovare, sperimentare e produrre risultati per i
cittadini. Con partiti che ritrovino il loro ruolo e restituiscano una
dimensione democratica alla politica economica
Colgo l’occasione che mi viene proposta di esprimere
alcuni commenti sulle proposte elaborate nel corso del dibattito “La
rotta d’Italia” animato dalla rete Sbilanciamoci!. Non condivido il
giudizio sommario espresso sul governo Monti, né l’equidistanza politica
espressa dalla colazione fra PD e SEL e dalla lista Rivoluzione Civile.
E non mi ritrovo in molte proposte. Ma mi ritrovo assai nel metodo.
Quello del confronto pubblico, aperto e acceso. Ci saranno certo altre
occasioni di confronto. Ma non voglio mancare questa. Lo faccio con
interesse nel momento in cui sto uscendo dall’esperienza di questo anno
di governo, un anno in cui ho avuto anche modo di mettere alla prova
idee maturate nella mia passata esperienza amministrativa. E colgo
dunque alcuni spunti che possano anche consentirmi di esprimere le mie
valutazioni sul “che fare”, dopo 15 mesi di governo.
Parto dal tema della politica pubblica proposta in particolare da Gnesutta e Pianta,
e leggibile in filigrana in tutti gli interventi successivi, dove si
propone di garantire un margine di manovra alle politiche di domanda più
ampio di quello attualmente previsto dal quadro istituzionale
comunitario. D’accordo, uno dei grandi errori del trentennio liberista è
avere dichiarato finito il ciclo economico, e avere abbandonato le
politiche anticicliche. Nell’ambito della mia missione di governo ho
realizzato nel Sud, dove avevo margini finanziari, d’intesa con sei
organizzazioni del partenariato sociale ed economico e con quattro
Regioni, una manovra anticiclica per oltre 2 miliardi.
Ma
forte deve essere, specie in Italia, l’attenzione all’offerta, alla
qualità effettiva dei servizi che l’intervento produce e dei
comportamenti che esso induce. Dobbiamo disegnare forme dell’intervento
pubblico che garantiscano la maggiore efficacia possibile della spesa.
Come?
Il metodo che abbiamo cercato di costruire è quello del continuo
confronto tra risultati attesi e conseguiti, non sulla base di obiettivi
di output (chilometri di strada ferrata posata, ore di lezione
impartite), ma piuttosto di indicatori di risultato atteso per la
qualità della vita dei cittadini (dunque minuti risparmiati negli
spostamenti, oppure risultati conseguiti dagli studenti nei test
OCSE-PISA). Non, dunque, una valorizzazione del ruolo della domanda
pubblica basato sul vecchio assunto di “scavare buche e poi riempirle di
nuovo”; ma la valorizzazione di una domanda pubblica qualificata, che
privilegi i consumi collettivi, in linea con l’ammonimento ricorrente
nei periodi più alti della cultura della programmazione in Italia (penso
all’attualità straordinaria di alcuni passaggi della “Nota aggiuntiva”
del 1962 e all’insegnamento di Claudio Napoleoni).
È un metodo che
sull’esperienza statunitense, catturata dal pensiero di Charles Sabel, è
definito “sperimentalismo”, dove i responsabili dell’azione pubblica
riconoscono la loro ignoranza, riconoscono che molta della conoscenza
sul “che fare” è posseduta dai soggetti che producono e consumano beni
pubblici. Ma che non rinunciano per questo a operare scelte e assumere
responsabilità. E piuttosto costruiscono un itinerario di realizzazione e
apprendimento. Aperto al pubblico e acceso al confronto. E perciò
informato e verificato. È il metodo che abbiamo riassunto nel documento “Metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi comunitari 2014-2020”.
Questo
diverso approccio metodologico alla spesa pubblica rende i cittadini
partecipi della programmazione e attuazione della politica economica. La
richiesta di un maggiore spazio di manovra fiscale arriva ai tavoli
comunitari non più come l’istanza di una classe dirigente “estrattiva”,
che su quella spesa pubblica ha costruito la sua posizione di rendita,
ma piuttosto come rivendicazione condivisa pubblicamente, elaborata e
sostenuta da cittadini finalmente dotati degli strumenti necessari a
verificare l’effettiva attuazione dei singoli interventi di politica
economica. E dunque va accompagnato da idonei strumenti di trasparenza
non solo su tempi e modi dell’investimento delle risorse, ma proprio
sugli obiettivi ultimi perseguiti con i diversi interventi, per
consentire a tutti i cittadini, singoli o associati, di valutare se
davvero una azione è andata bene o male, ha prodotto quanto si proponeva
o meno. La via, insomma, che ho cercato di intraprendere in questi mesi
con l’apertura del portale Opencoesione, il primo sistema di open data in senso proprio sui fondi di coesione in Europa.
Condivido poi le preoccupazioni diPizzuti circa la progressiva erosione del sistema di Welfare che
caratterizza il modello di sviluppo europeo, storicamente orientato
all’inclusione sociale, rispetto a quello anglosassone. Particolarmente
grave in Italia dove la quota di prodotto nel computo dei servizi
sociali e sanitari è ancora così modesta. La difesa del modello sociale
europeo può, a mio avviso, essere sostenuta da posizioni progressiste in
Europa (contro il supposto “true progressivism” analizzato efficacemente da Pini),
qualora un’intelligente operazione di “revisione della spesa” (mai
davvero fatta in questo Paese, che persevera sulla scorciatoia dei tagli
lineari), che sposti le risorse dagli impieghi più inefficaci e lontani
dai bisogni dei cittadini ai servizi essenziali, si affianchi alle
politiche richieste – di volta in volta – dai territori. Ne potrebbe
scaturire, ad esempio, una spesa redistribuita o anche accresciuta per
la scuola, ma rivolta a misurati risultati: l’allungamento dell’orario
di lezione, il calo della dispersione scolastica e il sostegno
all’acquisizione delle key competences.
Quello che, nel
contesto comunitario, occorre rafforzare del nostro modello sociale è
ciò che può portare ad arginare l’attuale tendenza all’ampliamento delle
disuguaglianze tra paesi centrali e paesi periferici, richiamato da Bogliacino,
in contrasto con un’Europa che promette (prometteva?) diritti di
cittadinanza. Solo così è possibile rilanciare il progetto di
integrazione europea – oggi drammaticamente messo in discussione dalla
crisi.
Sono poi d’accordo con quelli che, come Carlini,
sottolineano la centralità del tema del lavoro, e del lavoro dei
giovani: l’unica prospettiva di sviluppo capace di coniugare crescita
economica e inclusione sociale è quella che si pone chiari obiettivi di
aumento dei tassi di occupazione, come suggerito da Garibaldo.
Ma, anche in questo caso, occorre a mio avviso puntare all’innovazione
sociale e non alla ripetizione di vecchie ricette insostenibili sul
piano operativo o attuariale. Perché una prospettiva innovativa di
sostegno all’occupazione sia praticabile, più che il rilancio della
domanda può, a mio avviso, la valorizzazione di quei “corpi intermedi”
che sono i sindacati: Carrieri
lo dice chiaramente, ed io sono d’accordo con la sua idea che
marginalizzare le rappresentanze dei lavoratori significhi aderire ad
una “paradigma sotterraneo” che non ha nulla a che vedere con la
crescita economica. I sindacati, in questo senso, vanno utilizzati e
valorizzati, secondo me, non per concordare al ribasso condizioni di
pace sociale in quanto rappresentanti di interessi del lavoro; ma
piuttosto nella fase ascendente della costruzione delle politiche, come
vettori di conoscenza, e dunque possibili pilastri di alleanze ma anche
portatori di elementi di conflitto che spinga al superamento di vecchi
equilibri, snodi di legature sociali e dunque attori necessari a
realizzare inclusione all’interno di un percorso di crescita.
Al
tempo stesso, il tentativo di rilancio della crescita deve confrontarsi
con quei 14 punti percentuali di produzione industriale perduti negli
ultimi dieci anni di cui ci parla Romano.
La struttura produttiva del nostro paese va incontro a profondi
mutamenti, e la politica economica deve porsi il problema di come
accompagnare questi cambiamenti. Da qui la necessità di rilanciare una
politica industriale innovativa, che colmi, da un lato, le debolezze del
nostro tessuto industriale (penso anche alla difesa del manifatturiero
di cui parla Garibaldo e di recente posta con forza da Confindustria), e
sia in grado, dall’altro, di cogliere i segnali di vitalità che, pure
in tempi di crisi, le nostre imprese hanno saputo lanciare, e dunque
permettere ai segmenti più promettenti dell’apparato produttivo un salto
di qualità. Ancora una volta osservo, però, che la chiave è
l’innovazione delle politiche: non più sussidi e defiscalizzazioni, per
esempio, ma domanda pubblica innovativa (come nel caso dei bandi
precommerciali), concorrenza sulle idee attorno a strategie di sviluppo
locale, apertura agli innovatori, rivalutazione del ruolo del sapere e
del saper fare adattato alle nuove filiere industriali di punta.
Se
una rinnovata politica industriale è, come credo, un presupposto
necessario al rilancio, il paese deve anche misurarsi con la
valorizzazione del suo patrimonio naturale e culturale, invasi di fiumi;
versanti di colline e monti; piane bonificate; boschi disegnati in
secoli; siti di grandi centri del passato; architetture di ogni epoca,
segno dell’evoluzione delle funzioni e del gusto; pitture, sculture,
rilievi di ogni misura creati da centinaia di migliaia di artisti e
artigiani; sentieri, viottoli, strade, mulattiere segnate per comunicare
o per difendersi; borghi, eremi, chiese, masi, capanne, traccia delle
civiltà succedutesi. È uno straordinario “lavoro morto”, frutto dei
nostri avi, provenienti da ogni angolo, sul quale sediamo sempre più
come “moderni” rentier. E che potremmo tornare ad animare con il
nostro lavoro vivo. È questa, io credo, la chiave con cui rinnovarsi
nella direzione dei temi dell’ambiente e della cura del territorio messi
al centro da Andreis e Silvestrini
nei loro rispettivi interventi. Essa può attivare ulteriori inerzie
positive per la competitività del nostro sistema di imprese e per il
legame tra attività produttive e territori. Anche su questo fronte in
questi mesi abbiamo coagulato tracce per una strategia: il Progetto aree interne,
con il quale si potrebbero attivare le potenzialità di sviluppo per i
luoghi tutti del nostro policentrico Paese con una strategia che
coniughi crescita economica e tutela del territorio.
Ma manca
ancora qualcosa. Di assai importante. E il modo migliore per concludere
queste mie riflessioni me lo suggerisce allora l’intervento di Rogozzino: le attuali circostanze economiche e sociali impongono, con urgenza, un ritorno della politica.
Con
Ragozzino, penso alla politica intesa come “lavoro politico”: in questo
senso, resto convinto della impossibilità di prescindere da una
“politica come professione” (per dirla con l’abusato Max Weber), ma
anche della necessità dei partiti. Che dai vecchi partiti di massa anni
’50 riprendano la centralità dei beni comuni sui beni particolari, ma
con un nuovo compito fondamentale: integrare informazioni e conoscenze,
far emergere non solo le istanze e le priorità espresse dagli attori
sociali, dai territori e dalle città, ma soprattutto le loro idee sul
“che fare”, frutto della loro esperienza. L’assenza di una reazione alla
crisi, di una gestione intenzionale dell’economia, di una ricetta per
rilanciare lo sviluppo, proviene a mio avviso anche e soprattutto
dall’assenza dei partiti, di quello che Ragozzino chiama “lavoro di
mediazione” tra interessi diversi, a cui io aggiungo “fra conoscenze
diverse”.
La speranza è che quel lavoro di mediazione, e di
restituzione di una dimensione democratica alla politica economica,
venga ripreso da partiti capaci di uscire da una impasse ormai
troppo lunga, per porre le basi di elaborazione di una valida risposta
alle sfide che la presente crisi pone al nostro Paese.
Dal sito www.sbilanciamoci.info
Dal sito www.sbilanciamoci.info
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