Nell'anniversario della scomparsa di Leonardo Sciascia, rileggiamo il suo intervento su quelli che furono (non da Lui) definiti i "professionisti dell'antimafia"
La
documentatissima analisi dello storico inglese Christopher Duggan sul
fenomeno criminale sotto il regime mussoliniano - Anche nel sistema
democratico può avvenire che qualcuno tragga profitto personale dalla
lotta alla delinquenza organizzata - Uomini pubblici che esibiscono a
parole il loro impegno contro le cosche e trascurano i propri doveri
amministrativi
SOMMARIO: Due autocitazioni, da "Il giorno
della civetta" e da "Ciascuno il suo", per chiarire cosa egli pensi, da
sempre, sulla mafia. Segnala poi il libro recentemente uscito in
Italiano, di uno storico inglese che ha studiato la mafia sotto il
fascismo, non tanto in quel che essa era in sé ma per ciò che se ne
pensava intorno (Christopher Duggan, "La mafia durante il fascismo").
Purtroppo, a nulla servono i buoni libri (neanche i suoi due, citati
all'inizio) per far apprendere una "dolorosa e in qualche modo attiva
coscienza del problema"; anche i suoi, forse, sono stati letti tutt'al
più "en touriste", alla ricerca del "lieto fine". Ma quando Luigi
Sturzo, nel 1900, scrisse un dramma sulla mafia, esso non aveva - già
allora - un lieto fine. Poi, a don Sturzo è succeduta la DC, un partito
"a dir poco indifferente al problema".
Storicamente, in Sicilia,
il fascismo stentò a sorgere dove il socialismo era debole. E la mafia,
che aveva impedito lo sviluppo del socialismo, era già fascismo. Tanto
che essa cominciò a temere certe manifestazioni più intransigenti e
"rivoluzionarie" di settori del fascismo, degli ex-combattenti, dei
giovani nazionalisti, ecc., temuti anche dal fascismo agrario del nord:
come è il caso di Alfredo Cucco, fascista di linea radical-borghese,
arrestato dallo stesso fascismo. In Sicilia ci fu uno scambio, tra il
fascismo ed agrari ed esercenti di zolfare; il fascismo dava loro
sicurezza, ma questi dovevano liberarsi delle frange criminali. Questa
fu opera del prefetto Mori, uomo di gran senso del dovere verso lo
Stato, che così venne favorendo le aree fasciste conservatrici a danno
delle più "progressiste".: insomma, con Mori si ha il paradosso di una
"antimafia" come "strumento del potere". Qualcosa di simile può
succedere anche oggi: chi rimprovererà un sindaco che si occupi di mafia
magari trascurando di amministrare la sua città? In altro campo,
c'è da segnalare un episodio che ha visto il dottor Paolo Borsellino
scavalcare, nell'assegnazione al posto di procuratore della repubblica
di Marsala, un altro concorrente più anziano, perché questi non era
stato mai incaricato di processi contro la mafia...
(CORRIERE DELLA SERA, 10 gennaio 1987)
Autocitazioni,
da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che
appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia)
di persone dedite all'eroismo che non costa nulla e che i milanesi dopo
le Cinque giornate, denominarono "eroi della sesta".
1. "Da questo
stato d'animo sorse, improvvisa, la collera. Il capitano sentì
l'angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi
sottufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà
di azione: e sempre questo vagheggiamento aveva condannato nei suoi
marescialli. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali,
in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per
sempre. Ma gli vennero alla memoria le repressioni di Mori, il fascismo:
e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti... Qui
bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell'inadempienza fiscale,
come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non
soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche:
mettere mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo,
delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte
quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto [...]
sarebbe meglio si mettessero ad ann
usare intorno alle ville, le
automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e
confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto
senso." (Il giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961.)
2. "Ma
il fatto è, mio caro amico, che l'Italia è un così felice Paese che
quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già
se ne è stabilita una in lingua... Ho visto qualcosa di simile
quarant'anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola
storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi
è tragedia: ma io sono ugualmente inquieto." (A ciascuno il suo,
Einaudi, Torino, 1966.)
Esibite queste credenziali che, ripeto,
non servono agli attenti e onesti lettori, e dichiarato che la penso
esattamente come allora, e nei riguardi della mafia e nei riguardi
dell'antimafia, voglio ora dire di un libro recentemente pubblicato da
un editore di Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro: Rubbettino.
Il libro s'intitola "La mafia durante il fascismo", e ne è autore
Christopher Duggan, giovane ricercatore dell'Università di Oxford e
allievo di Denis Mack Smith, che ha scritto una breve presentazione del
libro soprattutto mettendone in luce la novità e utilità nel fatto che
l'attenzione dell'autore è rivolta non tanto alla "mafia in sé" quanto a
quel che "si pensava la mafia fosse e perché": punto focale, ancor
oggi, della questione: per chi si capisce sa vedere, meditare e
preoccuparsi; per chi sa andare oltre le apparenze e non si lascia
travolgere dalla retorica nazionale che in questo momento del problema
della mafia si bea come prima si beava di ignorarlo o, al massimo, di
assommarlo al pittoresco, al colore locale, alla particolarità folcloristica.
Ed
è curioso che nell'attuale consapevolezza (preferibile senz'altro
anche se alluvionata di retorica all'effettuale indifferenza di prima)
confluiscano elementi di un confuso risentimento razziale nei riguardi
della Sicilia, dei siciliani: e si ha a volte l'impressione che alla
Sicilia non si voglia perdonare non solo la mafia, ma anche Verga,
Pirandello e Guttuso.
Ma tornando al discorso: non mi faccio
nemmeno l'illusione che quei miei due libri, cui appartengono i passi
che ho voluto ricordare, siano serviti a parte i soliti venticinque
lettori di manzoniana memoria (che non era una iperbole a rovescio,
dettata dal cerimoniale della modestia: poiché c'è da credere che non
più di venticinque buoni lettori goda, ad ogni generazione, un libro)
siano serviti ai tanti, tantissimi che l'hanno letto ad apprender loro
dolorosa e in qualche modo attiva coscienza del problema: credo che i
più li abbiano letti, per così dire, "en touriste", allora; e non so
come li leggano oggi. Tant'è che allora il "lieto fine" - e se non lieto
edificante era nell'aria, per trasmissione di potere a quella cultura
che, anche se marginalmente, lo condivideva: come nel film "In nome
della legge", in cui letizia si annunciava nel finale conciliarsi del
fuorilegge alla legge.
Ed è esemplare la vicenda del dramma "La
mafia" di Luigi Sturzo. Scritto nel 1900, e rappresentato in un teatrino
di Caltagirone, non si trovò tra le carte di Sturzo, dopo la sua morte,
il quinto atto che lo completava; e lo scrisse Diego Fabbri,
volgarmente pirandelleggiando e con edificante conclusione. Ritrovati
più tardi gli abbozzi di Sturzo per il quinto atto, si scopriva la
ragione per cui la pièce era stata dal suo autore chiamata dramma (il
che avrebbe dovuto esser per Fabbri avvertimento a non concluderla col
trionfo del bene): andava a finire male e nel male, coerentemente a quel
che don Luigi Sturzo sapeva e vedeva. Siciliano di Caltagirone, paese
in cui la mafia allora soltanto sporadicamente sconfinava, bisogna
dargli merito di aver avuto chiarissima nozione del fenomeno nelle sue
articolazioni, implicazioni e complicità; e di averlo sentito come
problema talmente vasto, urgente e penoso da cimentarsi a darne un
"essemplo" (parola cara a san Bernardino) sulla scena del suo teatrino. E
come poi
dal suo partito popolare sia venuta fuori una democrazia
cristiana a dir poco indifferente al problema, non è certo un mistero:
ma richiederà, dagli storici, un'indagine e un'analisi di non poca
difficoltà. E ci vorrà del tempo; almeno quanto ce n'è voluto per avere
finalmente questa accurata indagine e sensata analisi di Christopher
Duggan su mafia e fascismo.
L'idea, e il conseguente
comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si
può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgere
là dove il socialismo è debole; in Sicilia la mafia ha impedito che il
socialismo prendesse forza: la mafia è già fascismo. Idea non infondata,
evidentemente: solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo
vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E
tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo vigore aveva
l'istanza rivoluzionaria degli ex combattenti, dei giovani che dal
partito nazionalista di Federzoni per osmosi quasi naturale passavano al
fascismo o al fascismo trasmigravano non dismettendo del tutto
vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia;
ma che, prima facilmente conculcate, nell'invigorirsi del fascismo nelle
regioni settentrionali e nella permissività e protezione di cui godeva
da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di polizia e di
quasi tutte le autorità dello stato; nella paura che incuteva ai
vecchi rappresentanti dell'ordine (a quel punto disordine) democratico,
avevano assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero, un
ruolo invadente e temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che
nato nel Nord in rispondenza agli interessi degli agrari, industriali e
imprenditori di quelle regioni e, almeno in questo, ponendosi in precisa
continuità agli interessi "risorgimentali" - volentieri avrebbe fatto a
meno di loro per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani, e
quindi con la mafia. E se ne liberò, infatti, appena dopo il delitto
Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu segno definitivo l'arresto
di Alfredo Cucco (figura del fascismo isolano, di linea radical borghese
e progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da
questo libro ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che
vanamente sperò di ottenere dal fascismo, che soltanto durante la
repubblica di Salò lo riprese e promosse nei suoi ranghi).
Nel
fascismo arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella
specie di sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in
Sicilia, liberarsi delle frange "rivoluzionarie" per patteggiare con gli
agrari e gli esercenti delle zolfare, costoro dovevano a garantire al
fascismo almeno l'immagine di restauratore dell'ordine pubblico
liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti.
E
non è senza significato che nella lotta condotta da Mori contro la mafia
assumessero ruolo determinante i campieri (che Mori andava solennemente
decorando al valor civile nei paesi "mafiosi"): che erano, i campieri,
le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà
fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori,
insostituibile elemento a consentire l'efficienza e l'efficacia del
patto. Mori, dice Duggan, "era per natura autoritario e fortemente
conservatore", aveva "forte fede nello stato", "rigoroso senso del
dovere". Tra il '19 e il '22 si era considerato in dovere di imporre
anche ai fascisti il rispetto della legge: per cui subì un
allontanamento dalle cariche nel primo affermarsi del fascismo, ma forse
gli valse quel periodo di ozio a scrivere quei ricordi sulla sua
lotta alla criminalità in Sicilia dal sentimentale titolo di "Tra le
zagare, oltre la foschia", che certamente contribuì a farlo apparire
come l'uomo adatto, conferendogli poteri straordinari, a reprimere la virulenta criminalità siciliana.
Rimasto
inalterato il suo senso del dovere nei riguardi dello stato, che era
ormai lo stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere da una
simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire per il
conservatorismo in cui il fascismo andava configurandosi, l'innegabile
successo delle sue operazioni repressive (non c'è, nei miei ricordi, un
solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento
che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell'opinione pubblica)
nascondeva anche il gioco di una fazione fascista conservatrice e di
vasto richiamo contro altra che approssimativamente si può dire
progressista, e più debole.
Sicché se ne può concludere che
l'antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al
fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e
incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente
incontrastabile era il regime o non solo: ma perché talmente
innegabile appariva la restituzione all'ordine pubblico che il dissenso,
per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente
etichettato come "mafioso". Morale che possiamo estrarre, per così
dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener
presente: l'antimafia come strumento di potere. Che può benissimo
accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito
critico mancando.
E ne abbiamo qualche sintomo, qualche
avvisaglia.
Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per
calcolo cominci ad esibirsi in interviste televisive e scolastiche, in
convegni, conferenze e cortei come antimafioso: anche se dedicherà
tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per
occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono
tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia
che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari
qualcuno, molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno
amministrativo: e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale
e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia,
un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può
darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere
marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è
da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo,
particolarmente aleggia dentro la democrazia cristiana: et pour cause, come si è tentato prima di spiegare. Questo è un esempio ipotetico.
Ma
eccone uno attuale ed effettuale. Lo si trova nel "Notiziario
straordinario" n. 17 (10 settembre 1986) del Consiglio superiore della
magistratura. Vi si tratta dell'assegnazione del posto di procuratore
della repubblica a Marsala al dottor Paolo Emanuele Borsellino e della
motivazione con cui si fa proposta di assegnarglielo salta agli occhi
questo passo: "Rilevato, per altro, che per quanto concerne i candidati
che in ordine di graduatoria precedono il dottor Borsellino, si
impongono oggettive valutazioni che conducono a ritenere, sempre in
considerazione della specificità del posto da ricoprire e alla
conseguente esigenza che il prescelto possegga una specifica e
particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza
organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare,
che gli stessi non siano, seppure in misura diversa, in possesso di tali
requisiti con la conseguenza che, nonostante la diversa anzianità di
carriera, se ne impone il 'superamento' da parte del più giovane aspirante."
Passo
che non si può dire un modello di prosa italiana, ma apprezzabile per
certe delicatezze come "la diversa anzianità", che vuol dire della
minore anzianità del dottor Borsellino, e come quel "superamento"
(pudicamente messo tra virgolette), che vuol dire della bocciatura degli
altri più anziani e, per graduatoria, più in diritto di ottenere quel
posto. Ed è impagabile la chiosa con cui il relatore interrompe la
lettura della proposta, in cui spiega che il dottor Alcamo che par di
capire fosse il primo in graduatoria è "magistrato di eccellenti
doti", e lo si può senz'altro definire come "magistrato gentiluomo",
anche perché, con schiettezza e lealtà ha riconosciuto una sua lacuna "a
lui assolutamente non imputabile": quella di non essere stato finora
incaricato di processi di mafia. Circostanza "che comunque non può esser
trascurata", anche se non si può pretendere che il dottor Alcamo
"pietisse l'assegnazione di questo tipo di procedimenti, essendo questo
modo di procedere tra l'altro risultato alieno dal suo
carattere". E non sappiamo se il dottor Alcamo questi apprezzamenti li
abbia quanto o più graditi rispetto alla promozione che si aspettava.
I
lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per
far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo
mafioso. In quanto poi alla definizione di "magistrato gentiluomo", c'è
da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un
solo magistrato che non lo sia?
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