Il
povero ragioniere Ugo Fantozzi, reduce da una delusione amorosa in
ufficio, prese in mano le “letture maledette” del compagno Folagra, il
rivoluzionario con la barba lunga e la sciarpa rossa emarginato da
tutti. Mesi di studio, e all'improvviso, curvo sui libri accatastati in
salotto, sbatté il pugno sul tavolo: «Ma allora mi han sempre preso per
il culo!». Quasi come una rivelazione divina: Fantozzi aveva capito
tutto.
Ecco, la lettura dell'ultimo lavoro di Luciano Gallino
"La lotta di classe dopo la lotta di classe" (intervista a cura di
Paola Borgna, editori Laterza) può sortire lo stesso effetto. Anche in
un pubblico colto, sobrio e moderatamente di sinistra. Perché smonta
uno a uno i dogmi dell'idea, anzi dell'ideologia moderna liberista,
così trasversale, così apparentemente intangibile, come se non ci
fossero altri schemi possibili all'infuori. E Gallino lo fa mettendo in
fila dati, studi, e non opinioni. Senza facili populismi, senza
scorciatoie preconfezionate. Spiegando che la lotta di classe esiste,
eccome. Solo che si è ribaltata: è il turbo capitalismo che ha
ingranato la quarta contro le conquiste dei movimenti operai ottenute
fino agli anni ’70. E i lavoratori sono sempre più divisi al loro
interno, impegnati in un’altra lotta, quella tra poveri.
Un testo imprescindibile per capire dove stiamo andando, e seguendo
quali (folli) logiche. Un testo che a sinistra dovrebbe – o potrebbe,
chissà – diventare una sorta di bibbia laica.
Era un'ottima occasione per parlarne direttamente col professore e sociologo piemontese.
Partendo dal tema del momento: dopo aver letto il libro sembra di
capire che l'attacco all'articolo 18, ma anche semplici frasi come
quella di Monti «le aziende non assumono perché non possono
licenziare», siano in realtà parte di un disegno ben preciso: quella
lotta di classe alla rovescia di cui parla nel libro. È così?
«Direi di sì. Si tratta di idee che circolano da decenni, che fanno
parte della controffensiva iniziata a fine anni ’70 per superare le
conquiste che i lavoratori avevano ottenuto a caro prezzo dalla fine
della guerra. Riproposte oggi sembrano sempre più idee ricevute,
piuttosto che analisi attinenti alla realtà. Dottrine neoliberiste
imposte adesso con la forza, combattendo i sindacati, comprimendo i
salari e tagliando le spese sociali».
Lei scrive: «La correlazione tra la flessibilità del lavoro – che
tradotto significa libertà di licenziamento e insieme uso esteso di
contratti di breve durata – e la creazione di posti di lavoro non è mai
stata provata, se si guarda all’evidenza accumulatasi con i dati
disponibili». Qui da mesi e mesi alla tv ci riempiono la testa col
“modello danese”, poi quello tedesco... Ci fu la riforma Treu nel '96,
poi quella Biagi, e ancora non sembra bastare. Allora forse la Cgil non
dovrebbe firmare la riforma, anche se la clausola del reintegro
venisse reintrodotta, perché è tutto l'impianto ad essere sbagliato...
«La Cgil è in una situazione molto difficile. Anche perché gran parte
degli altri sindacati e dei media sono favorevoli a questa visione
neoliberale. L’Ocse non è mai riuscita a provare l’esistenza di una
correlazione tra flessibilità e maggiori posti di lavoro, e in alcune
sue pubblicazioni arriva perfino ad ammetterlo. E anzi, c’è un aspetto
paradossale: usando gli stessi indici dell’Ocse, si scopre che ad
aumentare dovrebbe essere la rigidità, semmai. Perché dopo la riforma
del 2003, che ha aumentato la cosiddetta flessibilità in Italia e che la
rende superiore ad altri paesi come Francia, Germania e Inghilterra, i
nostri indici occupazionali sono peggiorati».
La sinistra sembra giocare sempre in difesa. Passa per conservatrice.
Che poi in effetti è vero, perché difende diritti acquisiti. Eppure il
messaggio non passa, e se passa lo fa negativamente. “La vecchia
sinistra, anti-moderna”. Il progresso sembra appannaggio di chi
professa lo smantellamento del modello sociale. C'è un problema di
comunicazione? Perché la sinistra ha così tante difficoltà a farsi
capire da chi dovrebbe difendere?
«C’è un problema non grosso come una casa, ma come un grattacielo. Se a
sinistra non c’è un partito di grande dimensioni che non difende il
“Lavoro” significa che siamo davvero malmessi e che l’impresa diventa
ancor più ardua. E poi la sinistra ha contro la maggior parte dei media
e della classe politica, anche quella della “sinistra” stessa. Perché
sono state introiettate quelle dottrine neoliberiste di cui prima. La
lotta ideologica contro i sindacati per adesso ha vinto, culturalmente
in primis. Basta vedere il calo degli iscritti al sindacato nei Paesi
sviluppati. E questo ha inciso anche sulla partecipazione dei cittadini
alla vita politica».
Verrebbe da dire che la fine delle ideologie è una grande bugia. Perché una è sicuramente rimasta, viva e vegeta....
«La fine delle ideologia è una delle più robuste e articolate ideologie
in circolazione. È servita ad assicurare il dominio delle politiche
economiche neoliberali, e anche la legittimazione di quelle politiche
sul piano culturale e ideale. Gli slogan gli conosciamo bene: “ridurre
la spesa pubblica”, “tagliare le imposte alle imprese e agli individui”,
“occorre più flessibilità”, “meglio il lavoro temporaneo”, “il mercato
deve guidare ogni immaginabile decisione, anche a livello locale”.
Tutto questo ha avuto la meglio, anche nella cultura di una parte della
sinistra. Conta poco che queste ricette siano sistematicamente
sconfessate dalla realtà»
È interessante come il modello neoliberista abbia copiato da Gramsci la
propria tendenza egemonica culturale. Lei lo ripete spesso. E poi
spiega, e lo ha detto anche prima, come un pezzo di sinistra ne sia
stata sedotta. Aggiungerei che alla sinistra hanno copiato anche
l'internazionalismo, cioè la capacità di fare "gioco di squadra" a
livello planetario. Come si fa a invertire la tendenza? Come si fa a
imporre nuovamente una visione alternativa della società?
«È estremamente difficile. L’egemonia attuale è vincente sia sul piano
della pratica, come lo vediamo ogni giorno, sia sul piano morale e
culturale. L’austerità sta tagliando l’insieme delle condizioni di vita
di milioni di persone, seminando recessione. E qui nasce un altro
pericolo, cioè che politiche di questo genere fomentino l’estrema
destra che urla contro la finanza, ma in modo assolutamente
strumentale».
Il primo a parlare di “austerità” fu Enrico Berlinguer. Qualcuno, sempre a sinistra, ha ritirato fuori la cosa.
«Sì, ma erano altri tempi, altre situazioni, e quella parola usata dal
segretario del Pci voleva dire un’altra cosa. Ora significa tagliare
salari, posti di lavoro, spesa sociale e diritti. Allora era una critica
al consumo. La crisi è nata anche per delle storture del modello
produttivo. Non si può pensare di continuare a produrre sempre di più,
all’infinito. Il progresso non consiste nell’avere cinque telefoni e tre
automobili a famiglia, ma ha a che vedere con la qualità della vita,
del tempo libero, del lavoro…»
Negli anni Settanta i giovani gridavano lo slogan "Lavorare meno,
lavorare tutti". A un certo punto lei parla dei sindacati, e fa una
critica a livello non solo europeo, ma mondiale: «Non si è sentito
nessun sindacato, o gruppo di sindacati, europeo o americano, alzare la
voce per dire che era inaudito che il salario orario minimo in Cina
fosse di 75 centesimi di dollaro; e che è scandaloso che aziende
europee e americane protestino perché quell’innalzamento da 65 a 75
centesimi non permette più loro di operare con profitto...». È
sicuramente vero. Ma perché accade? Si è persa la solidarietà di
classe? L'egoismo, l'interesse particolare, ha contagiato anche il
sindacato? È questa l'ennesima vittoria del pensiero dominante?
«I sindacati hanno delle giustificazioni. La frammentazione delle
attività produttive ha complicato l’attività sindacale. Un conto è
avere un megafono per parlare a cinquemila operai tutti insieme, un
conto è andarli a cercare in cinquanta fabbriche diverse con cento
operai ciascuno. Però sì, a livello internazionale si è fatto poco. La
necessità, adesso, è esportare diritti».
Il governo tecnico, anzi i governi tecnici in Europa, sono in realtà
governi di destra. Lo chiarisce molto bene. Com'è possibile che il Pd lo
sostenga e ne subisca il fascino anche per il futuro? Sembra un
cerchio che si chiude. La dimostrazione che la sua analisi sul pensiero
dominante è corretta.
«Concorrono diversi fattori. Un po’ perché la dottrina neoliberale,
come dicevamo, ha fatto presa anche a sinistra. Poi c’è il timore di
apparire agganciati a una storia di “vecchie ideologie”. C’è una
questione di competenza: si è capito ben poco di perché è nata la
crisi, sul come si è sviluppata, per colpa di chi o di cosa. E infine
c’è un fattore di convenienza: l’Italia è in Europa, e in Europa si
gioca con le regole del liberismo. Così qualcuno avrà pensato di far
mettere la faccia ai “tecnici” rispetto alla richieste dolorose che
Bruxelles richiedeva. Diciamo che può essere stato un grigio calcolo
elettorale».
Lei cosa ne pensa dei No Debito? È possibile rifiutarsi di pagare?
«Il movimento non tiene conto dell’esistenza della Bce, che però non
opera come una normale banca centrale: non può concedere prestiti,
magari a basso tasso di interesse, agli stati membri o ad altre
istituzioni. Questo perché il trattato di Maastricht lo proibisce.
Abbiamo rinunciato alla sovranità monetaria entrando nella Ue, e quindi
ci ritroviamo con una moneta straniera. Ecco, visto questo, non pagare
il debito è impossibile. L’istanza è però moralmente valida, specie se
si pensa alla dissennatezza del sistema finanziario, al fatto che i
Paesi hanno speso 4,1 trilioni di euro per salvare le banche aumentando
il proprio debito. Ma bisognerebbe chiedere subito una riforma del
sistema finanziario. Sono stati fulminei a fare la riforma delle
pensioni, a imporre diktat da occupazione militare alla Grecia, eppure
da anni giace in un cassetto da anni una riforma di questo tipo. Per la
quale dovremmo davvero batterci».
L’analisi del suo libro potrebbe diventare fondamentale per ridare fiato alla sinistra. Ho letto il "Manifesto per un soggetto politico nuovo",
e mi sembra che il gruppo di intellettuali che l'ha redatto e firmato,
tra cui lei, vada in quella direzione. Che reazioni ha avuto da parte
dei partiti d’area?
«Ho l’impressione che siamo intorno a zero. Ma vorrei dire che non si
tratta di buttare via i partiti, quanto di rinnovarli, saldando il
ponte tra movimenti e organizzazioni politiche. Se i movimenti
continuano a vedere i partiti come vecchie carrozze, e se i partiti
vedono i movimenti come allegri ma inutili catalizzatori per le
manifestazioni, il futuro non sarà certamente roseo».
Chiudo con una battuta. In chiusura lei scrive: «Con la caduta del
socialismo reale è stato seppellito anche quel frammento di verità
essenziale su cui era stata malaccortamente e colpevolmente innalzata
la torreggiante megamacchina sociale che pretendeva di rappresentarlo.
Quel frammento, che dopotutto sta alla base del movimento operaio da
quando è cominciato, fin dall’inizio dell’Ottocento, era la ragione
stessa della storia, o meglio la ragione che conferisce un senso alla
storia. Era giusto che la torre cadesse, ma, cadendo, la torre ha
sepolto tra le sue macerie anche quell’ultimo frammento che
rappresentava la speranza di un rinnovamento della società intera. E
questa è stata una perdita enorme». Lo sa che le daranno dello
stalinista?
«È possibile e la cosa mi diverte anche. Perché cito dati ufficiali,
molto spesso, del Congresso americano. Tutto questa significa che tra
la realtà oggettiva delle cose e l’interpretazione che se ne dà c’è una
distanza siderale. E ciò non depone certo a favore della maturità
politica della nostra classe dirigente».