L’EuroMemo Group, autore del Rapporto, fornisce da tempo analisi
della situazione e dell’evoluzione dell’economia europea,
accompagnandole con proposte che contestano l’orientamento mainstream
degli organismi europei e internazionali che tanto ha condizionato e
condiziona tuttora la dinamica della società europea. Nel Rapporto di
quest’anno un punto nodale è individuato nelle differenze economiche
strutturali esistenti fra i paesi dell’Unione, in particolare fra quelli
dell’euro-zona, differenze che, lungi dall’essersi riassorbite nei
dieci e più anni di moneta unica, si sono accresciute e ora inasprite
con la crisi. è una situazione che ci riguarda direttamente, alla
stregua degli altri paesi della periferia mediterranea e di quella
dell’Europa orientale e baltica, e che impone giocoforza una diversa
presenza a livello europeo a qualsiasi governo che voglia sostenere
occupazione e salari, garantire livelli più diffusi di benessere,
avviare un new deal verde, affrontare le necessarie trasformazioni
infrastrutturali (burocrazia, corruzione, criminalità, ricerca e
istruzione); insomma, che voglia avviare una politica di medio periodo
in grado di dare una prospettiva socialmente sostenibile al nostro
apparato produttivo richiede. Una presenza che non sia solo per farci
dire cosa dobbiamo fare, ma per dire noi cosa l’Europa dovrebbe fare.
Non
vi è solo un’ampia condivisione delle linee di politica economica
sostenute dal Rapporto, ma, in presenza di una crisi che si sta
avvitando su sé stessa tanto da rinviare sempre più lontano nel tempo la
stabilizzazione della situazione, si condivide anche l’urgenza che
vengano modificati obiettivi e strumenti della politica economica
europea fortemente ancorati a una visione che fa dell’austerità il suo
punto cardinale.
In un contesto finanziario solo momentaneamente
stabilizzato, è importante l’impegno del governo italiano di sostenere
la costruzione di istituzioni a livello europeo atte a contenere le
pressioni speculative della finanza; vanno rafforzate le istituzioni
introdotte faticosamente nell’ultimo anno per mettere al riparo le
finanze pubbliche e le banche da possibili futuri shock esterni. In
questa direzione, va sostenuta la mutualizzazione dei debiti pubblici in
un contesto di fiducia e di controllo reciproco sui comportamenti dei
singoli membri, così come va attentamente monitorata la situazione delle
banche favorendo tutte quelle iniziative che possono ridurre il
contenuto speculativo ad alto rischio della loro attività. Va
adeguatamente implementata la decisione di adottare una tassazione sui
flussi finanziari, possibilmente allargata e potenziata nei confronti
delle transazioni con i paesi che non la adottano. Particolare
attenzione richiede l’impegno di minimizzare i costi pubblici di
eventuali ulteriori salvataggi bancari; la penalizzazione delle
operazioni più speculative dovrebbe peraltro favorire l’apporto che le
banche possono dare al finanziamento delle imprese produttive. Su tutti
questi punti vi è stata, per quanto dilatata, un’elaborazione non
irrilevante che richiede una presenza fortemente orientata all’interesse
generale per evitare che le soluzioni adottate non siano a favore degli
interessi di pochi ma forti.
Altro snodo importante per mettere
al riparo i debiti pubblici dei paesi (deboli) europei dalle pressioni
speculative di breve periodo e avviare il risanamento finanziario degli
stessi è l’adozione di iniziative tese a contrastare le forme di
concorrenza fiscale presenti sia all’interno che all’esterno all’area.
L’esistenza di paradisi fiscali o di analoghe legislazioni di elusione
fiscale vanno contrastate per evitare che i redditi da capitale, per
loro natura molto mobili, non siano favoriti rispetto agli altri redditi
in modo che il loro migrare non produca “buchi” nei conti pubblici con
inevitabili difficoltà a perseguire gli obiettivi di trasformazione
dell’attività produttiva e di consolidamento del welfare essenziale al
benessere collettivo.
Una revisione dell’accordo sul Fiscal
Compact è certamente il punto cruciale; esso deve essere consensualmente
reinterpretato in maniera da allentare la stretta recessiva che sta
esercitando sull’intera economia europea. Ciò non significa sostenere
forme di indisciplina finanziaria, ma individuare – come è ovvio
interesse di un governo che ha a cuore il progresso civile di una
società – tutte le modalità atte a ridimensionare gli oneri finanziari a
carico del bilancio pubblico che, rappresentando remunerazione di
banche e rentier, vanno a scapito delle politiche sociali. Un
allentamento dei vincoli del Patto in grado di favorire una ripresa
della produzione e dell’occupazione va perseguito anche per
sopravvivenza della stessa classe politica poiché il protrarsi di un
vincolo finanziario troppo stringente, impendendole di affrontare i
bisogni sociali, ne decreta il fallimento favorendo, e gli esempi non
mancano, le spinte populiste e conservatrici. Va inoltre contrastato
l’uso terroristico fatto dalle forze conservatrici che, per giustificare
la continuità con le attuali politiche di austerità, sostengono
l’esigenza di ridurre il volume del debito pubblico quando il vero problema e ridurre il suo peso rispetto al Pil e ciò può essere raggiunto, con il più ampio benessere generale, da un’espansione della produzione e dell’occupazione.
L’impegno
è allora per una gestione del Fiscal Compact meno recessiva; essa è
possibile all’interno delle stesse sue regole se si tiene conto che esso
prevede la possibilità di derogare dai vincoli posti qualora si sia in
presenza di una caduta del reddito al di sotto del livello “potenziale”.
Il prossimo governo deve quindi dimostrare – impegnandosi anche sul
terreno “econometrico” – che l’attuale sottovalutazione dello scarto
deflazionistico tra reddito corrente e reddito potenziale che stiamo
registrando è di molto superiore a quello valutato dagli economisti: il
neoliberismo sta anche nella rappresentazione quantitativa della realtà.
è necessario che si riconosca una valutazione ben più reale della
situazione recessiva della nostra economia (e di quella di molti altri
paesi dell’Unione) in modo da ridefinire i vincoli sulla spesa pubblica e
allontanare nel tempo, oltre il 2014, l’impegno al pareggio di
bilancio, cosa che faciliterebbe tra l’altro il suo corretto
perseguimento.
Se il punto cruciale è la necessità di allentare
la politica recessiva (a livello dell’intera Unione) perseguita dalla
dirigenza europea, va sottolineato che, per non accentuare gli squilibri
finanziari all’interno dell’area, una politica dal lato della domanda
dovrebbe essere gestita, con ottica comunitaria, in maniera asimmetrica
ponendola a carico dai paesi in surplus. A questi paesi, e in
particolare alla Germania, deve essere chiesta un’assunzione di
responsabilità dato che le sue politiche interne producono, nell’attuale
contesto istituzionale europeo, effetti recessivi sugli altri paesi.
Una politica economica tedesca più espansiva, magari con un minor
contenimento dei salari, genererebbe una maggiore domanda estera per i
paesi in deficit e allevierebbe le loro difficoltà a sostenere la
propria crescita senza incorrere in ulteriori squilibri nei conti
pubblici. Un clima più espansivo dell’intera politica economica europea
avrebbe peraltro l’effetto di contribuire al tentativo degli Sati Uniti
di evitare il pericolo di una ricaduta nella recessione mondiale,
mitigando l’eccesso di liquidità che tende ad aggravar lo squilibrio
monetario internazionale.
Non si tratta quindi di negare
l’esistenza dei vincoli che l’economia pone, ma di saperli gestire
attivando tutte le iniziative in grado di favorire la ripresa della
domanda, e quindi della produzione e dell’occupazione, in un’ottica di
più lungo periodo che ponga l’equilibrio sociale come condizione del
rilancio produttivo. A questo riguardo, si deve far ricorso a tutte le
forme finanziarie disponibili a livello europeo – quali i Project bonds e
i finanziamenti della Banca europea degli investimenti - per orientare
una politica industriale attiva, attualmente completamente assente nei
programmi dell’Unione. Un intervento che non si limiti alle pur
importanti condizioni infrastrutturali, e a quelle di contorno di
formazione delle capacità tecniche e professionali nonché di
incentivazione della ricerca, ma miri a promuovere più direttamente, e
in un’ottica europea, il consolidamento della attività produttive
(nell’agricoltura, nell’industria, nei terziari) e soprattutto nelle
regioni meno favorite; si tratta di migliorare la loro competitività
attraverso forme di assistenza all’innovazione tecnologica e
organizzativa che sviluppino la qualità dei processi e dei prodotti in
un orientamento compatibile con la sostenibilità ambientale (green
economy, risparmio energetico ecc). In altre parole, meno mercato del
lavoro e più politica industriale.
Per essere credibile e
incisiva, un tale indirizzo di politica industriale deve naturalmente
disporre di risorse adeguate. Se si pensa che esse dovrebbero risultare
da un bilancio pubblico dell’Unione europea che dovrebbe accrescere di
molto il suo peso attuale (che è a un livello minimo dell’1% del Pil
europeo), le recenti decisioni a livello di Commissione non sono
confortanti. Mentre conforta che, per la prima volta, il parlamento
europeo abbia saputo esprimere un parere contrario, bocciando con un
voto la proposta di budget della Commissione.
Garantire la
ripresa e la stabilità nel tempo dei livelli occupazionali non è solo un
obiettivo importante in quanto condizione per la sopravvivenza
materiale, ma è anche e soprattutto un fattore essenziale per
l’inclusione sociale. Non va trascurato che, in mancanza di risultati
significativi in questa direzione, saremmo destinati – come altri paesi
dell’eurozona – a un lungo processo di deflazione sociale che renderebbe
drammatica la contraddizione tra la partecipazione all’euro e
all’Europa e le prospettive di benessere per le fasce più deboli del
paese.
Non è male, a questo riguardo, avere presente che una
visione della politica economica e sociale europea più espansiva, quale
quella qui auspicata, si scontra con una visione diversa, quella
imperante in Europa. Forse si dovrebbe avere la consapevolezza che
esiste in Europa un’unità politica che, da tempo, ha trovato il suo
punto di aggregazione, ormai consolidata, nella definizione degli
obiettivi e nella gestione delle istituzione in senso neoconservatrice. È
a questo corposo orientamento che ci si deve contrapporre.
Non è
per niente facile “il” compito di un governo che, pur in una
riacquisita fiducia reciproca con i propri partner europei, volesse
orientare la politica economica dell’Unione in senso socialmente meno
penalizzante. È peraltro inevitabile che una prospettiva di
rovesciamento della visione culturale e politica che regge l’attuale
governo dell’Europa debba essere posta al centro della sua azione non
solo a Bruxelles ma nelle capitali di tutta l’Unione per affermare
l’importanza – non solo per noi, ma anche per gli altri paesi europei
inclusi quelli del “centro” – di una diversa visione del futuro del
nostro continente. Naturalmente non deve mancare l’impegno delle forze
politiche e dei movimenti che, a livello europeo, condividono la
prospettiva di allargare, attraverso una concreta discussione critica,
la partecipazione alla definizione di questo possibile futuro.
dal sito www.sbilanciamoci.info
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