Nei giorni scorsi è venuta a mancare Margaret Thatcher. Molti commentatori di casa nostra si sono cimentati a ricordarla, sottolineando le innovazioni che in campo economico e sociale aveva prodotto in Gran Bretagna.
Da noi si usa parlando dei morti il termine "buonanima" forse per guardare gli aspetti positivi di chi non c'è più.
Io non riesco a chiamarla buonanima perchè non riesco a trovare negli anni del suo governo, iniziative tese a migliorare le condizioni di vita dei suoi compatrioti. Tutt'altro.
Anzi, stiamo pagando oggi, con gli interessi, il prezzo delle sue politiche liberiste e del suo degno compare d'oltreoceano Ronald Reagan.
Pubblico a questo proposito un articolo del prof. Claudio Gnesutta che insegna Economia Politica e Politiche economiche e scenari macroeconomici presso la
Facoltà di Economia dell'Università di Roma "La Sapienza", pubblicato sul sito di Sbialanciamoci.info
“I have given you back the right to manage”.
Con questa frase il primo ministro Margaret Thatcher esordiva a una
cena annuale della Confederation of British Industry assumendosi il
merito di aver rilanciato la crescita economica del Regno Unito
Come noto, gli anni Settanta sono contrassegnati,
anche nel Regno Unito, da profonde tensioni economiche e sociali. Il
modello economico che fino ad allora aveva garantito la diffusione del
benessere in ampi strati della popolazione, è messo in discussione dal
quadro competitivo internazionale che richiede una ristrutturazione
industriale costosa sul piano sociale in un contesto di forte incertezza
generata dalle tensioni inflazionistiche dovute alla crisi petrolifera e
a quella del dollaro con conseguenti svalutazioni competitive, crescita
dei deficit pubblici e cadute dei redditi reali.
Con la vittoria del partito Conservatore nel 1979, il governo dalla sig.ra Thatcher porta un
radicale mutamento nella strategia di politica economica, un Right
Approach di netta contrapposizione con la politica keynesiana del
passato. Il suo riferimento sono le posizioni del monetarismo e della
nuova macroeconomia classica che, almeno inizialmente, tenta di
applicarle incondizionatamente alla realtà, conquistando con una
proposta netta e apparentemente innovativa ampi strati di cittadini che
non si ritrovano nell’incerta risposta laburista alla crisi.
La
rivoluzione politica della Thatcher (e del presidente degli Stati Uniti
Ronald Reagan) modifica profondamente l’orientamento di politica
economica in quanto assume come propria linea di fondo il “disimpegno”,
ovvero l’arretramento del governo da aree d’intervento e di
responsabilità economica che le precedenti amministrazioni avevano
occupato. L’obiettivo immediato è il controllo dell’inflazione tramite
politiche monetariste che, con un impatto rapido, riportano sotto
controllo l’aumento dei prezzi, senza alcun riguardo alla creazione di
disoccupazione che ne deriva. L’obiettivo a più lungo periodo è invece
di “restituire la salute alla vita economica e sociale” con “un equo
bilancio dei diritti e dei doveri delle unioni sindacali”, in modo da
ripristinare gli incentivi a coloro che “tanto duramente” lavorano e che
quindi garantiscono la creazione di nuovi posti di lavoro e sostengono
la crescita economia. È l’avvio della politica dal lato
dell’offerta: rimozione delle restrizioni all’espansione degli affari;
controllo delle spese governative per ridurre l’onere sull’economia;
struttura fiscale caratterizzata da una più bassa tassazione per
favorire le remunerazioni delle imprese e delle capacità professionali;
privatizzazione delle industrie nazionalizzate; abolizione delle
restrizioni sul sistema bancario, sulla finanza internazionale; e infine
liberalizzazione del mercato del lavoro (l’Employment Act del 1980 diretto a limitare drasticamente lo spazio dell’attività sindacale è il primo atto dell’amministrazione Thatcher).
L’abbandono
della funzione di regolatore diretto e indiretto dell’economia da parte
dello Stato risulta particolarmente incidente, non solo per le
liberalizzazioni e deregolamentazioni interne in campo industriale, ma
soprattutto per le relazioni finanziarie internazionali. Sono scelte che
trasformano la struttura produttiva del paese; alla
deindustrializzazione corrisponde una rapida espansione dell’industria
dei servizi in particolare delle attività legate alla finanza nazionale
ed internazionale: la City è il modello e il suo principale
beneficiario.
Gli effetti di questo “disimpegno” si manifestano
da subito sulla distribuzione del reddito e sulla disoccupazione, ma non
impensierisce il governo poiché si ritiene sia giustificata dalla
necessità di stimolare l’imprenditorialità e la ristrutturazione
dell'apparato produttivo, e delle connesse relazioni sociali, nella
ricerca di una maggiore “efficienza” produttiva che non si ritiene
raggiungibile senza una severa “disciplina” interna: la reintegrazione
degli incentivi economici è più importante dell’uguaglianza. L’obiettivo
è una società di hard-worker indotti a diventare wealth-owner –
proprietari di casa sostenuti da un mercato dei mutui liberalizzato e
assicurati nei confronti del futuro da contratti finanziari privati –
per costituire in prospettiva il solido supporto alla visione e alla
politica conservatrice della società.
Viene proposta e accettata
la visione di una società fondata sul superamento delle istituzioni del
welfare e del potere di contrattazione sindacale e quindi su un sistema
di relazioni sociali che trovano nell’interesse del capitale privato la
condizione di progresso per tutti. La concezione del ruolo del settore
pubblico che orienta Margaret Thatcher è ben riassunta dalla sua
affermazione che “There is no such thing as society”: “non esiste
una cosa come la società. C'è solo l'individuo e la sua famiglia” nella
convinzione che l’unica realtà istituzionale in grado di garantire il
progresso civile sia quella fondata su strutture di mercato.
Il
progetto Thatcher non è quindi solo un nuovo orientamento di politica
economica, ma rappresenta anche una nuova proposta di aggregazione
sociale intorno a un nuovo modo di sviluppo. Costruire una società più
flessibile implica dover restringere i costi pubblici a una più
ristretta cerchia di popolazione. Si assiste quindi a un lungo processo
di riforma dello stato sociale (sanità e istruzione in primis) con
l’obiettivo di sostituire la logica sociale con quella di mercato
riportando a livello individuale il rapporto tra prestazioni e
contributi e, per quanto riguarda i sussidi di disoccupazione,
condizionarli a politiche di welfare to work per evitare nei beneficiari
atteggiamenti di scarsa disponibilità nella ricerca di nuovo impiego.
Una politica sociale che spiega la deriva verso una società più
diseguale, un lavoro più precario, una povertà più diffusa in presenza
di una crescita dei redditi e dei consumi particolarmente veloce per
coloro che operano nella finanza o comunque nelle posizioni economiche
più elevate.
La visione risulta vincente (non solo nel Regno
Unito) in quanto diventa “senso comune” che le forze di mercato sono un
elemento “naturale” della vita quotidiana e i suoi esiti non sono quindi
suscettibili né di riflessione critica né di considerazioni morali,
etiche e politiche. Non vi è pertanto alcuna alternativa possibile a un
capitalismo di mercato: l’“economia” viene rimossa dalla sfera della
contestazione politico-ideologica. È l’affermazione forte che “There Is No Alternative”, che non ci possono essere alternative. In sostanza siamo alla “fine della storia”.
Ma
è proprio questa visione escatologica che non ha tenuto. L’ipertrofia
del settore finanziario, la speculazione finanziaria, la crisi
produttiva occupazionale, le forti disuguaglianze, la precarietà di
larghi strati sociali segnalano tutti che questa visione politica genera
instabilità e insicurezza. Nell’accettazione di questa prospettiva ha
giocato indubbiamente anche l’“acquiescenza” della classe politica, sia
di centro-destra che di centro-sinistra, anglosassone, europea e
latinoamericana per aver introiettato i “valori” di questa
“nuova-vecchia” visione del mondo, almeno fin quando non è risultato
evidente il suo fallimento. La pressione per la sua accettazione non è
stata solo culturale, se si ha presente la politica estera degli Stati
Uniti nei confronti dei paesi più renitenti ad accettarla (i drammi
dell’America Latina dell’ultimo quarto del secolo scorso lo
testimoniano) e il ruolo svolto dalle istituzioni internazionali (in
particolare Fondo monetario e Banca mondiale) nell’imporla, quale unica
soluzione alle difficoltà economiche. Essa ha investito in una
progressione crescente i paesi meno sviluppati, l’area asiatica e ora
l’Europa, dove una reiterata politica di offerta nella forma di politica
di austerità sta accentuando l’instabilità economica e sociale prodotta
da quei mercati finanziari anglosassoni che tanto si sono avvantaggiati
delle politiche di deregolamentazione benevolmente avviate in epoca
thatcheriana.
L’eredità della Thatcher sta tutta nella pericolosa
instabilità economica e sociale che stiamo vivendo, a fronte della
quale i suoi nipotini ancora al governo non sembrano disporre di idee e
strumenti per una soluzione. Non rimane che augurarci come Keynes: che
quanto prima i nostri statisti siano capaci di abbandonare un “libro
della saggezza (che) si basa su teorie vere un tempo, in tutto o in
parte, ma che diventano di giorno in giorno meno vere”.
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