giovedì 1 dicembre 2011

Claudio Treves: Perchè accanirsi sull'art.18? I veri problemi sono altri. Un contributo alla discussione.

Claudio Treves, responsabile del dipartimento mercato del lavoro della Cgil, ha scritto questo interessante articolo nel quale fa il punto sulle prospettive di riforma del mercato del lavoro alla luce degli annunci del Governo Monti

Ci risiamo. Anche il neo costituito Governo Monti, con il pur pregevole rimando ad un preventivo confronto con le parti sociali, riprende la vexata quaestio della “eccessiva tutela” di alcuni a fronte della carenza di tutele di altri nel mercato del lavoro, e si appresta a formulare proposte sul tema. Di proposte, per la verità, se ne conoscono già di diverse, dal progetto di Boeri-Garibaldi a quello più organico di Ichino, per non dimenticare l'antico “Verso un diritto del lavoro del XXI secolo”, meglio noto come “Libro verde sul mercato del lavoro” della Commissione Europea del novembre 2006.

Quest'estate, com'è noto, la BCE e poi nuovamente la Commissione Europea sono tornati sull'argomento, con la premurosa e inaccettabile risposta del Governo dell'epoca (articolo 8 legge 148/11), in cui, facendo finta di sostenere la “contrattazione di prossimità”, si affidava ad essa la facoltà di derogare, tra le molte altre cose, anche alla tutela dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.


E' nota, altresì, la contrarietà totale espressa dalla Cgil verso queste disposizioni, e la indisponibilità a sottoscrivere intese sulla base del citato articolo 8. Ma ora che il nuovo Governo sembra voler riprendere la questione sotto il profilo dell'”accresciuta equità” non è fuori luogo ritornare sulle ragioni che motivano quella scelta della Cgil.

Lo faccio discutendo delle premesse metodologiche e di valore avanzate dai sostenitori di quelle proposte, per finire con l'analisi della “norma di chiusura”, anch'essa presente nel discorso di Monti, secondo cui “non si toccherebbe nulla per quanti fossero già coperti dall'art.18, le novità varranno  solo per i nuovi assunti”.

Perché intervenire sulle regole del licenziamento? La voce più autorevole è stata storicamente l'Ocse (Job Study, 1994), secondo cui una eccessiva rigidità in uscita determinerebbe un rallentamento nel flusso delle assunzioni, e in definitiva un blocco dell'occupazione (a fianco di questo fattore, nello studio venivano richiamati per analogo risultato ammortizzatori sociali troppo generosi e una contrattazione collettiva eccessivamente centralizzata). Ebbene, la stessa Ocse dovette riconoscere (dopo essere tra l'altro incorsa in un infortunio scientifico molto grave per aver considerato il TFR un'indennità di licenziamento, ed aver così collocato l'Italia tra i Paesi con elevati livelli di rigidità, cosa della quale si dovette scusare pubblicamente, ma delle scuse è noto che nessuno tiene conto...), che non vi erano analisi econometriche in grado di confermare tale assunto, ma che al più si poteva concludere che una protezione elevata dai licenziamenti aveva una correlazione positiva con la durata dei periodi di disoccupazione. Dunque, non c'è alcuna scientificità nella tesi che ridurre le tutele aiuta l'occupazione.

L'ex Ministro Sacconi ha accreditato una versione più soft del teorema sopra esposto, consistente nel dire che l'abolizione del reintegro avrebbe invogliato “la propensione ad assumere delle imprese”: anche qui, la pedanteria dei numeri sconsiglierebbe di insistere. E' noto infatti che:

a) l'addensamento maggiore di piccole imprese è situato nel Mezzogiorno, dove si addensa anche il maggior numero di disoccupati, e che il contrario avviene nel Centro Nord; b) i flussi assunzionali sono molto più intensi al Centro Nord e languono al Mezzogiorno. Per cui, se queste osservazioni hanno un senso, se ne dovrebbe dedurre che l'invogliamento ad assumere delle imprese sembra essere maggiormente determinato dal tasso di sviluppo dell'economia, piuttosto che dalle normative in essere.

Se quindi la discussione fosse di semplice natura economico-statistica, essa avrebbe dovuto essere conclusa da tempo con la convinzione che i temi più importanti avrebbero dovuto essere altri per spiegare il basso tasso di crescita e la stasi della produttività che contraddistinguono l'economia italiana a partire dalla fine degli anni '90, tanto da aver spinto il Presidente dell'Istat a parlare, nella prefazione al Rapporto sull'Italia 2011, di un “decennio perso per il lavoro”.

Ma c'è un altro versante su cui si è venuto incentrando il dibattito, ed è quello dell'equità nel mercato del lavoro. E in effetti è dalla metà degli anni '90, se non si vuole risalire addirittura all'epoca dei contratti di formazione/lavoro (1984!), che il legislatore italiano ha valorizzato e/o introdotto tipologie d'impiego a tutele minori a cominciare dall'art.18: tanto è vero che su 100 assunzioni oggi solo poco più di 17 risultano essere fatte con contratti a tempo indeterminato, solo una parte dei quali avviene in imprese sopra la soglia mitica dei 15 dipendenti. Quindi esiste certamente un problema di equità nel mercato del lavoro, e si conoscono anche i soggetti che sono le vittime della sua mancanza: giovani, donne, immigrati, lavoratori meridionali.

Il punto è come aggredire questa iniquità, e se le misure avanzate vadano in direzione utile. Con una premessa, d'obbligo anche se scontata per i frequentanti la materia: in Italia si può licenziare, sia individualmente che collettivamente (a volte sembra opportuno ripetere questi concetti, data la follia dei dibattiti in proposito). Quello che è punito, in forme diverse (riassunzione e/o monetizzazione per imprese sotto 15 dipendenti, reintegro per quelle sopra la soglia) è il licenziamento illegittimo, ogni licenziamento illegittimo senza improbabili distinzioni tra licenziamenti per motivi economici o disciplinari. Per cui le proposte in campo non innovano sulla possibilità di licenziare, bensì sulle misure a fronte di licenziamenti illegittimi, a meno che...con un gioco di prestigio si sottragga lo stesso concetto di illegittimità dalle mani del giudice, e il gioco sembra fatto!

E allora il senso delle proposte in campo, aldilà delle diverse declinazioni, è questo: superare (alcuni dicono per alcuni anni di anzianità, altri eliminare tout court) per chi fosse un nuovo assunto la tutela prevista dall'art.18 (ossia il reintegro nel luogo di lavoro se il licenziamento sia considerato illegittimo), prevedendo al suo posto la monetizzazione e, in certi casi, l'offerta di servizi di ricollocazione nel mercato del lavoro.

La principale obiezione che si può fare a questa proposta è la seguente: perché assumere, data la sua inconsistenza scientifica sopra ricordata, la tesi che rimanda alle supposte difficoltà di licenziamento la spiegazione dell'andamento dell'occupazione, ma che ciò non sia sostenibile è stato sopra richiamato. Inoltre, si adotta in questa teoria un altro presupposto, ugualmente indimostrato, che cioè nel mercato del lavoro viga un principio che potremmo chiamare “dei vasi comunicanti”, secondo cui al calo di tutele in un segmento corrisponda automaticamente un accrescimento in un altro: e qui purtroppo soccorrono diversi casi concreti di “politiche dei due tempi” in cui il secondo non si realizza mai. Da ultimo proprio la legge 30/03, di cui qualcuno aveva esaltato un'”anima laburista”, doveva essere completata da una riforma universalista degli ammortizzatori sociali, e sappiamo com'è andata. Da questo punto di vista la polemica sui padri che tolgono ai figli, o cui bisognerebbe togliere perché i figli abbiano, è fuorviante e ipocrita se indirizzata al sindacato e alla Cgil in particolare, dato che non ricordo altra organizzazione, sociale o politica che sia, che abbia avanzato proposte inclusive sia di tipo lavoristico (sulle tipologie d'impiego), che sociali(ammortizzatori sociali), il cui segno è stato sempre quello di superare separatezze ed esclusioni che la politica, sostenuta spesso da teorie rivelatesi fallaci, aveva determinato. Del resto, basta interrogare i molti, troppi giovani costretti a restare a casa e facile preda dei mitici contratti flessibili per sapere se vorrebbero che i loro padri rinunciassero alle tutele conquistate, per sapere che questa contrapposizione – per fortuna – non ha avuto, almeno fin qui, terreno fertile, ma che è invece cresciuto il senso di un'iniquità complessiva delle regole del lavoro che deve essere superata includendo i fin qui esclusi anziché penalizzare i cosiddetti tutelati “in eccesso”.

Allora, se vogliamo davvero essere equi nel mercato del lavoro, i nodi non sono l'articolo 18 quanto i tre punti seguenti:

  1. la lotta al sommerso, formidabile strumento di divisione e di compressione dei diritti, vale da sola il 17% del nostro PIL (a proposito di dove e come reperire risorse...);
  2. la riduzione delle tipologie d'impiego e il sostegno all'occupazione stabile (basterebbero 4 forme d'impiego, gli incentivi andrebbero disboscati recuperando anche qui risorse da indirizzare a due canali precisi, il lavoro stabile e le conversioni verso il lavoro stabile delle forme attualmente precarie) ;
  3. l'universalità degli ammortizzatori sociali, di modo che “nessuno resti escluso dalle tutele in ragione del settore di appartenenza, del tipo di contratto di lavoro, della dimensione dell'impresa” (cito a memoria dal Protocollo del 23 luglio 2007, base per una delega per la riforma degli ammortizzatori sociali che scade a fine 2012...).

Su questi punti la Cgil è pronta da subito a misurarsi con spirito costruttivo, perché crediamo siano i tasselli decisivi per far ripartire su basi nuove e finalmente convergenti la crescita e i diritti di chi lavora. E su di essi su cui sarà interessante capire le intenzioni del governo e delle forze politiche, a partire dalle proposte che la Cgil ha già avanzato e che saranno riprecisate il prossimo 3 dicembre nell'assemblea nazionale dei delegati. Perché l'equità si ottiene non diminuendo le tutele là dove esse sono radicate, ma affrontando i drammi di un mercato del lavoro precarizzato che è diventato esso stesso fattore di declino produttivo e di stasi della produttività, come molti economisti hanno iniziato a dimostrare.

Un'ultima cosa: si dice che la riforma di cui si parla non toccherebbe chi oggi è coperto dall'art.18, ma solo i nuovi assunti. Per onestà tra i partecipanti al dibattito pregherei tutti di smetterla di divulgare una stramberia simile. A meno di sostenere, e vorrei vederlo in faccia, che la protezione dell'art.18 diventa “diritto soggettivo” della persona con tanto di nome e cognome, che lo accompagnerà, a prescindere dalle imprese ove egli presterà la sua opera, fino all'età del pensionamento. Ma anche ammettendo questa bizzarria, si rendono conto i sostenitori della proposta che così si codifica il doppio regime in ogni impresa oltre i 15 dipendenti? E sono sicuri, i sostenitori, che ciò significhi una tranquilla gestione delle differenze, o non piuttosto l'accumularsi di una tensione endoaziendale che prima o poi scoppierà, con buona pace di Confindustria? E che razza di soluzione è quella che lascia sedimentare iniquità e poi meravigliarsi se esplodono?

Meglio, molto meglio, dedicarsi ai veri nodi che ingessano l'Italia e includere seriamente i giovani senza costruire contrasti generazionali che fanno solo danni.


Nessun commento:

Posta un commento

La narrazione e i fatti. Il governo Meloni fa scuola

NARRAZIONE: “si introduce un esonero dal versamento del 100 per cento dei contributi previdenziali ed assicurativi a carico del datore di la...