Ne L'ipocrisia
dell'Occidente, Franco
Cardini,
con gli strumenti dello storico, racconta le varie fasi dell’attacco
musulmano all'Occidente con una personale chiave interpretativa.
Dietro lo scontro di civiltà, usato strumentalmente da minoranze
sparute, si nascondono interessi precisi. Al servizio di questo mito
cooperano più o meno consapevolmente una diplomazia internazionale
traballante e voltagabbana e un universo mediatico allarmista e
ricercatore di consensi legittimanti.
Diciamo
la verità: è duro sentirsi convinti di appartenere a una civiltà
civicamente e culturalmente superiore a qualunque altra in quanto
detentrice di valori universali ed avere al tempo stesso l’amara
consapevolezza di non trovarsi affatto all'altezza di dimostrarlo.
Parigi, la città per tanti versi emblematica della libertà di
pensiero e dei diritti dell’uomo, è stata sconvolta fra mercoledì
7 e venerdì 9 gennaio da una terribile catena di eventi luttuosi e
delittuosi che per un verso l’hanno lasciata sconvolta, per un
altro hanno determinato da parte dei suoi cittadini e di tanti altri
convenuti nelle sue piazze e nelle sue strade – tra cui decine di
leader politici europei – una risposta che si è proposta come
energica e unitaria, e per un altro verso ancora hanno fatto
emergere, proprio dalla dinamica di quella risposta (la
manifestazione repubblicana di domenica 11), una serie di problemi
inattesi, ai quali è stato arduo fornire una convincente risposta.
La
mattina del 7 gennaio 2015 due fratelli di fede musulmana d’origine
nordafricana, cittadini francesi, Chérif e Saïd Kouachi,
rispettivamente di trentadue e trentaquattro anni, hanno fatto
irruzione nella sede del settimanale «Charlie Hebdo» – famoso per
le sue vignette satiriche nei confronti dell’Islam, come anche del
cristianesimo e dello stesso ebraismo – e hanno sterminato quasi
tutti i redattori insieme con alcuni appartenenti al personale di
custodia nonché, fuori dall'edificio, l’agente di polizia Ahmed
Merabet, quarantaduenne, musulmano. Dopo una drammatica fuga sono
riusciti a nascondersi in un edificio non lontano da Parigi da dove
la polizia li ha stanati due giorni dopo, abbattendoli. È poi emerso
che almeno uno dei due, Chérif, era già noto alla polizia e sotto
sorveglianza e che era collegato a un gruppo affiliato ad al-Qaeda
implicato in una filière di reclutamento di giovani
guerriglieri francesi alla volta dell’Iraq e collegato con
l’organizzazione Jabhat al-Nusra. Intanto, giovedì 8, il giovane
musulmano Coulibaly, in apparenza sprovvisto di legami con i due
terroristi, ha a sua volta ucciso nei pressi del Parco di Montrouge,
nel XIV arrondissement, un’agente della polizia
urbana e quindi il giorno dopo, la mattina del 9, assalito un
supermarket kasher alla Porte de Vincennes, nel XX,
catturando alcuni ostaggi tra i clienti dell’esercizio, cittadini
di religione ebraica che stavano preparandosi allo shabbat,
e abbattendone quattro. Nello stesso giorno è stato ucciso dai
membri di un reparto di polizia che aveva fatto irruzione nei locali
del supermarket.
L’incalzare
degli eventi ha causato una ridda di notizie false o inesatte, un
accavallarsi di commenti e di polemiche. A caldo, il massacro dei
giornalisti e dei vignettisti di «Charlie Hebdo» – già da tempo
nel mirino degli islamisti a causa di alcuni disegni che
satireggiavano la figura del profeta Muhammad – ha provocato una
grande manifestazione largamente spontanea, in Place de la
République, il cui carattere era quello della rivendicazione del
diritto alla satira come parte della libertà di stampa e di
quella tout court di espressione, obiettivo
concettuale della strage. I convenuti avevano infatti innalzato una
foresta di penne e di matite simboleggiando con quel gesto la loro
volontà di rispondere con le armi della libera e coraggiosa critica
ai kalashnikov degli attentatori: le armi del pensiero e dell’ironia
contro quelle del terrorismo fanatico e ottuso che sa solo uccidere e
ama la morte. Il motto «Je suis Charlie», immediatamente tradotto
in molte lingue (arabo compreso), esprimeva la volontà di
sottolineare come il settimanale colpito rappresentasse tutti coloro
che credono nei valori universali della difesa di una libertà
insofferente di limiti e di tabù.
A
Parigi, nella carneficina del 7 gennaio, si è colpita l’umanità
intera perché si sono colpiti diritti universali: primo fra tutti
quello della libertà di pensiero e d’espressione. Bella e
commovente l’immagine di Place de la République straripante di
folla commossa. Bello poter ripetere in tutte le lingue: «Je suis
Charlie». Il settimanale «Charlie Hebdo» ci rappresenta tutti, non
per quel che scrive e disegna ma per quel che simboleggia: l’orgoglio
di una libertà che non conosce tabù. Era quanto aveva appunto
dichiarato, dopo un assalto terroristico già precedentemente subìto
dal giornale e che ne aveva danneggiato la sede, il famoso
disegnatore Stéphane Charbonnier («Charb»): ai responsabili di quell'attacco, causa del quale erano state le caricature del
Profeta, Charbonnier replicava che nella cultura occidentale – o
comunque nella sua personale interpretazione di essa – una
religione altro non è se non una forma di filosofia o d’ideologia,
per cui era lecito satireggiare e caricaturizzare Muhammad o la
Vergine Maria esattamente come era lecito fare entrambe le cose nei
confronti di Karl Marx o del presidente Obama.
Parigi
intanto si vestiva a lutto. Nella notte tra il 9 e il 10, allo
scadere di ciascuna ora fino alle due, i turisti ignari avrebbero
aspettato invano sul Pont Neuf, con i portatili pronti alla foto, lo
scintillare d’oro e di luci ingemmate della Tour Eiffel che ogni
notte si ripete. La torre sarebbe rimasta buia quella notte, nella
sua freddezza ferrigna contro il cielo cupo di gennaio. In lutto,
come le bandiere abbrunate. La Ville Lumière rinunziava
per una notte al suo splendore. Lutto per i redattori di «Charlie
Hebdo», per i poliziotti caduti nell’esercizio del loro dovere,
per le vittime dell’attentatore solitario di Porte de Vincennes la
cui personalità stava frattanto profilandosi come quella inquietante
di un disadattato, di un portatore di turbe psichiche, il quale
comunque aveva ostentato simpatie per lo stato islamico del califfo
al-Baghdadi. Questo particolare, d’altronde, poneva almeno sotto il
profilo indiziario un nuovo e magari non trascurabile problema per
gli osservatori più attenti. Al-Qaeda e Jabhat al-Nusra sono
avversarie dello stato islamico, pur condividendone l’origine
teologica salafita. Dietro le due diverse e rivali confessioni
seguite – ma non sappiamo con quanta consapevolezza, né se sulla
base o meno di un piano tattico o perfino strategico più ampio –
si disegna, in filigrana, la lotta civile e religiosa tra le varie
anime dell’Islam politico, la fitna: una lotta che
ormai non riguarda più soltanto i paesi musulmani, bensì anche
quell’Occidente nel quale stanno crescendo – ma è un altro
fenomeno che per il momento non siamo in grado di valutare né
quantitativamente, né qualitativamente – le conversioni alla fede
coranica; e insieme con esse, fatalmente (ma in una misura a sua
volta ardua a quantificarsi), anche le candidature degli aspiranti
combattenti del jih?d.
Peraltro,
una forte disparità di vedute ha cominciato presto a profilarsi
anche nell'opinione pubblica francese e nei mass media che
la rappresentavano, per poi comunicarsi a tutta quella genericamente
occidentale. Non a caso, nel messaggio televisivamente trasmesso alla
nazione francese nella serata dell’8 dal presidente Hollande, e che
ha dato a non pochi osservatori l’impressione di essersi lasciato
tentare dall’occasione offertagli dalle tragiche circostanze per
recuperare almeno parte di quella popolarità che negli ultimi mesi
era andata colando a picco, l’accento è stato posto sulla
necessità di fornire al terrorismo una risposta coerente, concorde,
unitaria. Ma la prospettiva unitaria è stata immediatamente
incrinata dall'insorgere delle polemiche relative all'opportunità che alla manifestazione repubblicana indetta per la domenica 11 (a
proposito della quale si è parlato di due milioni di partecipanti)
fosse ammesso anche il Front National. Chiara la ragione del
contendere: a molti spiaceva che un partito sostenitore di
un’islamofobia generalizzata e acritica, che tende a individuare in
tutti i musulmani degli almeno potenziali terroristi, potesse
compromettere l’immagine, che si voleva invece far passare con
chiarezza, della ferma volontà popolare di opporsi al terrorismo,
non a una cultura e tanto meno a un credo religioso. E d’altra
parte, come escludere dal coro unitario della nazione una forza
politica che ne è divenuta una delle voci principali?
Né
ciò basta ancora. Al di là della ferocia della strage perpetrata
nella sede di «Charlie Hebdo» e nelle persone stesse delle vittime
di essa, sul piano simbolico e concettuale è alla libertà di
pensiero e di espressione che si è attentato. Ma allora, ci si è
chiesti, siamo certi che la classe politica francese attuale, con le
sue scelte, sia adatta a ergersi davvero e con coerenza a paladina di
un tale, altissimo valore? Lo stesso Hollande, che l’8 sera lo
aveva proclamato e ribadito, ha corretto la mattina dopo il tiro
facendo precipitosamente sapere all'opinione pubblica che «per
facilitare le indagini di polizia» e per non concedere ai terroristi «la visibilità che essi desiderano» avrebbe potuto essere
necessario ricorrere a qualche forma di silenzio-stampa e di
limitazione provvisoria della libertà a vantaggio della sicurezza. È
riaffiorato dunque nella Francia del 2015 lo stesso problema che si
era presentato negli Stati Uniti tre lustri or sono, all'indomani dell’11 settembre: è lecito, nel nome della sicurezza, rinunziare
a qualche parcella di libertà? La questione è aggravata dal fatto
che la libera repubblica francese ha imposto mesi fa una legge che
proibisce alle donne musulmane di indossare il velo nei locali
pubblici: e il proibire è un provvedimento liberticida non minore,
per quanto di segno opposto, dell’obbligo d’indossare tale
indumento che vige in certi paesi musulmani. D’altra parte essa ha
legiferato, anche a proposito del cosiddetto revisionismo storico, in
una direzione che è apparsa come pregiudiziale nei confronti non
solo della libertà di coscienza, ma anche di quella di ricerca
scientifica. Come la mettiamo con gli Immortali Princìpi dei quali
Marianne va tanto fiera?
Quest’ordine
di problemi ha conosciuto un imbarazzante strascico proprio in
seguito alla manifestazione repubblicana dell’11. Ad essa ha
partecipato anche un altro personaggio scomodo del mondo francese, il
comico Dieudonné, che per la sua impostazione filopalestinese è
stato accusato di antisemitismo. Ebbene, in una lettera aperta
indirizzata al ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve, egli ha
dichiarato: «Da un anno, lo stato cerca di eliminarmi con tutti i
mezzi. Linciaggio mediatico, interdizione dei miei spettacoli,
controlli fiscali, ufficiali giudiziari, perquisizioni... Più di
ottanta processi si sono abbattuti su di me e sui miei cari. E lo
stato continua a perseguitarmi. Da un anno sono trattato come il
nemico pubblico numero uno, mentre cerco solo di far ridere...».
Quel che insomma si accordava e si accorda liberamente a «Charlie
Hebdo» verrebbe in qualche modo negato ad altri. E lo stesso
settimanale è stato investito da qualche coda polemica, quando si è
ricordato che mesi fa un suo giornalista era stato licenziato per
aver criticato alcuni aspetti della vita dell’ex presidente Sarkozy
(per la cronaca: Dieudonné è stato arrestato di nuovo).
Ulteriore
motivo di polemica si è originato dallo sdoppiamento della
manifestazione unitaria, una parte della quale ha avuto come centro
la Synagogue de la Victoire, dove la cerimonia in onore delle vittime
del supermarket kasherha finito con l’incentrarsi sulla
partecipazione del premier israeliano Netanyahu, che pare aver preso
Hollande in contropiede e del quale è stato discusso, con molta
perplessità, l’invito rivolto ai cittadini francesi di religione
ebraica a trasferirsi in Israele, paese più sicuro e loro autentica
patria.
Last
but not least, non è mancata la contestazione magari non
esplicita ma tuttavia strisciante allo stesso fortunato motto che ha
dominato le tormentate giornate parigine. Molti tra blog e tweet – in
questa contesa a più fronti, che ha anche un rilevante aspetto
informatico – hanno avanzato distinzioni spinte fino a prese di
posizione dichiaratamente non allineate. Je ne suis pas
Charlie, ha dichiarato senza peli sulla lingua qualche
esponente cattolico, che a «Charlie Hebdo» non perdona le troppe
vignette blasfeme – poco umoristiche e spesso molto volgari, per la
verità – e che ha quasi l’aria d’invidiare l’intransigente
rigore con il quale i musulmani difendono la loro fede reagendo alle
offese contro il Corano e contro il Profeta, mentre i cristiani non
osano reagire se una vignetta si burla del parto virginale di Maria
disegnandola in un atteggiamento «ginecologico» giudicato
disdicevole. Il che, a dir la verità, è solo un problema dei
cristiani e di nessun altro (lo dico da cattolico).
Ma
sono stati i cittadini francesi di fede musulmana, d’origine
asiatica o africana ma anche europei di antica stirpe e più o meno
di recente convertiti, a manifestare con maggior decisione il loro
disagio. Nel corso della manifestazione di domenica si sono
verificati atteggiamenti di solidarietà e di fratellanza nei loro
confronti, accompagnati però anche da altri che esprimevano, se non
proprio antipatia, quanto meno riserva, ispirata al forse non diffuso
ma comunque corrente pregiudizio secondo il quale tutti i musulmani
sarebbero in fondo, in quanto tali, suscettibili di essere sospettati
di simpatia o connivenza nei confronti del terrorismo islamista. In
risposta, i cartelli inalberati da molti manifestanti dinanzi alla
grande moschea parigina, che recitavano rivolti ai terroristi un pas
en mon nom,traduzione letterale del not in my name con
il quale, negli Stati Uniti e in Inghilterra, si è reagito ai
bombardamenti occidentali in Iraq e in Afghanistan, erano in fondo a
doppio taglio: protestavano contro il terrorismo, ma al tempo stesso
criticavano l’atmosfera di sospetto strisciante dalla quale si
sentivano circondati.
Atmosfera
che trapela anche dalla tesi del romanzo di Michel
Houellebecq Soumission, a sua volta ritenuto da qualcuno
probabile concausa scatenante degli attentati terroristici del 7, 8 e
9. Houellebecq, il cui romanzo è stato immediatamente tradotto anche
in italiano, ipotizza che in una Francia del futuro molto prossimo –
appena tra qualche anno – le elezioni portino alla guida della
repubblica un presidente musulmano moderato e ragionevole, che
dolcemente guida il paese verso un destino autoritario e patriarcale,
rispetto al quale tanti cattolici – magari anche di destra – si
trovano d’accordo con lui. Insomma, un ulteriore e sostanzioso
passo verso quell’Eurabia da qualcuno temuta e che, alla prova dei
fatti, potrebbe rivelarsi gradita da quegli stessi che si presentano
come i suoi più acerrimi avversari.
Ma
la finzione narrativa di Houellebecq è l’altra faccia della
medaglia di una situazione (questa sì reale) che ha assistito a un
inedito ravvicinamento tra una certa sinistra – quella più
dichiaratamente libertaria, quindi affezionata a «Charlie Hebdo» e
che si sente da esso ben rappresentata – e una certa destra –
quella antislamica per radicato e indiscriminato pregiudizio e al
tempo stesso più conservatrice –, sulla base dell’ostilità
altrettanto viva ancorché diversamente motivata nei confronti
dell’Islam fondamentalista, considerato in ultima analisi l’estremo
ma anche più autentico e profondo volto della fede musulmana.
«Siamo
in guerra». Lo hanno detto in molti. Lo aveva già preannunziato
papa Francesco con le sue espressioni sulla «terza guerra mondiale».
Da noi, lo ha ripetuto Umberto Eco. Sulla rivista «Le Point» del 15
gennaio, che ospita una carrellata di opinioni articolate e sotto
molti aspetti dissonanti – da Orhan Pamuk a Salman Rushdie, da Luis
Sepúlveda a Jean Delumeau ad André Glucksmann –, è stato
il Grand Vieux dell’Académie Française, Jean
d’Ormesson, ad affermare con decisione: «Le monde change autour de
nous. Nous sommes en guerre. Non contre l’Islam, mais contre le
terrorisme. Il n’est pas question d’entreprendre une guerre de
religions. Mais il faut affronter avec détermination et courage une
guerre des droits de l’homme contre l’intolerance, une guerre des
libertés contre la barbarie».
Appunto.
Ma proprio questo è il problema. Le nobilissime parole di
d’Ormesson, proprio in quanto tali, non solo non chiudono il
problema, bensì spalancano dinanzi a noi nuovi, abissali aspetti di
esso. La guerra sarebbe quindi quella contro il terrorismo: ma come,
e soprattutto perché, si diventa terroristi? E come s’identifica
un esercito non solo nascosto, ma anche dotato di più volti magari
tra loro contrastanti? Se la manovalanza terrorista va da adepti a
forme d’intellettualismo nihilista del tipo denunziato da
Glucksmann (in Italia si è scoperto che uno studente-modello della
Scuola Normale Superiore era adepto di una formazione jihadista) fino
a sottoproletari reclutati nelle sacche di emarginazione e di miseria
delle banlieues e perfino nelle carceri, come
separare la loro attività di esecutori (magari spesso dotati di
pratica autonomia) dai mandanti e dai finanziatori che possono
annidarsi anche nelle pieghe elitarie del mondo musulmano, ad esempio
tra gli emirati della penisola arabica? Nella serata del 9, sul
canale televisivo France 2, il miglior politologo specialista
dell’Islam di tutta la Francia, Gilles Kepel, ha messo in guardia.
Attenzione, ha detto, la «guerra contro il terrore» gestita da Bush
jr. dal 2001 al 2008 ci ha regalato l’aggressione all’Afghanistan
e all’Iraq con tutte le loro nefaste conseguenze; ma allora l’Islam
fondamentalista aveva il volto dei guerriglieri sauditi e yemeniti
prima alleati e poi acerrimi nemici degli statunitensi, mentre oggi –
nell’era di Twitter – il verbo jihadista s’insinua
nelle periferie, nelle più miserabili pieghe della società del
benessere che non è più tale, si trasforma in un impossibile sogno
apocalittico di redenzione e di rivalsa. Siamo sempre più spesso
davanti a Lumpenterroristenguadagnati alla loro causa
sanguinosa da una predicazione fanatica, veicolata da strumenti
informatici a loro volta sofisticatissimi. La nostra sensibilità
ancora ispirata, magari implicitamente, all’idea di un progresso
irreversibilmente volto verso forme sempre più ampie di conquista
sociale, civile e culturale mal si rassegna all’idea che il
«ritorno selvaggio di Dio» che ha per tanti versi caratterizzato e
sta caratterizzando lo scorcio tra XX e XXI secolo possa essere in sé
la prova di un fallimento, sia pur parziale, della modernità laica.
Credevamo e magari speravamo che il progresso, la scienza, la
tecnica, il miglioramento delle condizioni sociali, avrebbero nel
loro dialettico avanzare messo in crisi e fatto progressivamente
scomparire il «bisogno del Divino» nel genere umano: che cosa non
ha funzionato?
Se
siamo immersi in una guerra nella quale è difficile distinguere i
contrapposti schieramenti, va detto che ad essere finora
insufficientemente sviluppata a livello critico è stata l’analisi
delle ragioni per le quali si diventa terroristi: ricercarle nel
fanatismo è non solo generico e astratto, ma soprattutto
tautologico. Quel che finora è stato quasi sempre taciuto e magari
perfino negato dai media occidentali è l’aspetto sociale
della predicazione jihadista, che del resto fa parte della sua
connotazione apocalittica. Già a impedirci di comprendere a fondo il
successo di formazioni come la sciita Hezbollah e la sunnita Hamas –
le quali peraltro si sono espresse entrambe, e senza ambiguità, in
termini di decisa condanna degli attentati terroristici – è stata
l’ignoranza o la sottovalutazione della loro componente sociale.
Quel che forse spinge molti musulmani specie giovani e giovanissimi –
tra i quali occidentali neofiti, che trovano evidentemente oggi nell'Islam quel che l’altro ieri i loro padri e ieri i loro
fratelli maggiori trovavano nell'estremismo politico-utopistico o
nel viaggio pseudoliberatorio della droga – a cercare
l’arruolamento nelle formazioni jihadiste non è l’odio contro
l’Occidente inteso come cultura della libertà e dei diritti
dell’uomo, bensì la costatazione che tale cultura, formalmente
sostenuta e anzi ostentata, coincide nella realtà delle cose con
quelle forme di repressione e sfruttamento che trovano la loro
espressione nel viluppo d’interessi tra stati
occidentali, lobbies multinazionali e forme varie di
corruzione nelle stesse élites di governo dei paesi musulmani.
In un mondo governato da un crescente processo di concentrazione
della ricchezza e al tempo stesso d’impoverimento,
proletarizzazione e addirittura sottoproletarizzazione a livello
mondiale di quelli che un tempo si sarebbero chiamati i ceti
subalterni, la fame e la sete di giustizia possono ben assumere i
connotati del jih?d voluto da Dio. Quel che da noi
di rado si dice è che la propaganda jihadista si alimenta non solo
di visioni religioso-politiche universalistiche e apocalittiche, ma
anche d’istanze di giustizia sociale.
D’altra
parte questo silenzio, questa sottovalutazione, sono logici: noialtri
preferiamo pensare che chi si proclama o si dimostra nostro
avversario ci odi perché è un fanatico piuttosto che chiederci se,
per caso, una parte almeno del suo odio non dipenda dalla coscienza
di uno stato di prostrazione e di miseria dovuto agli effetti di un
secolare sfruttamento, mentre la nostra opulenza riposa sul
sistematico drenaggio di ricchezze al quale le nostre multinazionali
sottopongono paesi le cui risorse sono immense ma non ricadono, se
non in ridicola misura, su quanti li abitano.
Non
era allegra, in quei giorni, Parigi. Passata l’atmosfera
quasi paradossalmente, per non dire istericamente, festosa della
manifestazione di domenica 11 gennaio, essa aveva recuperato tutte le
sue più plumbee sfumature di bigio dei cieli di pucciniana memoria,
mentre il gaio e superbo tricolore della Rivoluzione e di Napoleone
pendeva mesto e attorcigliato alle aste, legato con un nastro nero
che lo abbrunava. D'altronde la contingenza tragica si collega a un
lungo momento d’insicurezza e di mestizia. Anche i parigini si
vanno di giorno in giorno sentendo più poveri, un po’ come tutti
noi, in questa fase di crisi profonda dell’euro e dell’Europa; e
i giovani disoccupati o sottoccupati musulmani, che nelle banlieues e
nelle carceri sono stati raggiunti dal truce sogno di rivalsa della
guerra santa, non sanno più ormai immaginarsi un domani di
redenzione attraverso la via onesta e faticosa del lavoro e della
progressiva affermazione all’interno di una società dapprima loro
ostile e quindi ammirata e aperta di fronte alla loro intraprendenza
e al loro successo. Tutto ciò è solo la memoria lontana di qualcosa
in cui un tempo si poteva credere, ma adesso non più. E vagheggiano
il paradiso all’ombra delle spade.
D’altronde,
se Glucksmann denunzia il nihilismo degli aspiranti terroristi e
stigmatizza il fatto che gli europei abbiano accettato con «silenzio
assordante» che i predicatori jihadisti pronunziassero le
loro fatw?, mostra di non essersi mai accorto che i
contenuti di quella predicazione a loro volta denunziavano un altro
nihilismo, quello della società occidentale unilateralmente volta al
profitto e al primato dell’individualismo privo di regole e limiti.
Ed era nihilista la stessa libertà rappresentata dall’équipe di
«Charlie Hebdo», quella che si arrogava, e presumibilmente
continuerà ad arrogarsi, il diritto di sottoporre qualunque oggetto
alla fèrula della satira sulla base dell’equivalenza aprioristica
tra opinione personale, tesi ideologica, espressione politica e
rivelazione religiosa. Non a caso il sottotitolo di «Charlie Hebdo»
suona «Journal irrésponsable». La sua libertà non è nemmeno
tanto quella di Voltaire e di Rousseau, quanto semmai quella del
marchese de Sade: la libertà dei ricchi e dei forti, per i quali gli
altri sono disprezzabili oggetti, per quanto l’ipocrita retorica
umanitaria di cui siamo impastati nella nostra vita quotidiana
c’impedisca, se non di renderci conto di ciò, quanto meno di
esprimerlo. Ci siamo evidentemente dimenticati che chiunque ritenga
che i princìpi sui quali egli personalmente si fonda siano gli unici
universali mentre quelli degli altri sarebbero solo ridicole forme di
superstizione o di fanatismo cade in quell'errore che un grande
europeo, l’antropologo Claude Lévi-Strauss, avrebbe qualificato
come «occidentocentrismo» (o magari «modernocentrismo»).
Ma
proseguiamo nella scomoda analisi dei paradossi e delle
contraddizioni affiorati sulla scia sanguinosa dei fatti di Parigi.
«Siamo in guerra», hanno affermato solennemente in molti
all’indomani dell’attentato. Occorreva quella sanguinosa riprova
per rendersene conto? Indipendentemente dalla politica di conquista,
di sfruttamento – e magari anche di civilizzazione ma comunque di
oppressione che gli europei hanno esercitato sul resto del mondo
nell’ultimo mezzo millennio –, siamo tanto distratti da non aver
notato che gli ultimi decenni sono stati una serie continua di
operazioni militari (magari di «polizia internazionale» e
«d’intervento umanitario», se non di «esportazione della
democrazia») condotte da paesi occidentali – e la Francia di
Sarkozy e di Hollande negli ultimi anni è stata al riguardo in prima
linea – nel Vicino e nel Medio Oriente? È razionale assistere allo
spettacolo in tv degli aerei occidentali che bombardano paesi e città
magari massacrando popolazioni indifese e pensare che lo stato di
guerra che con ciò si presenta dinanzi ai nostri occhi non si debba
mai ritorcere in alcun modo contro di noi? O abbiamo dimenticato il
principio – che pure era stato solennemente sancito dai fautori
della Resistenza antinazista europea – secondo il quale in una
situazione di «guerra asimmetrica» il terrorismo è l’unica arma
efficace nelle mani di chi non dispone di altro per difendersi? O
trascuriamo il fatto che sterminare centinaia di persone – donne e
bambini compresi in un colpo solo servendosi di un drone che ci
consente di non rischiare nemmeno una perdita da parte nostra – è
una forma diversa ma non meno grave di terrorismo rispetto a quella
del Lumpenterrorist che abbatte degli innocenti a
colpi di kalashnikov?
Ciò
detto, resta perfettamente legittimo da parte nostra scegliere
all’interno dell’Islam i nostri alleati nello schieramento che
amiamo definire moderato (e nel quale usiamo includere quando e
finché ci conviene anche i dittatori, se conducono una politica a
noi favorevole, e perfino gli emiri del Golfo che impongono il velo
integrale alle donne e vietano loro di andare a scuola e di guidare
l’auto). Ma, se davvero siamo in guerra, adottiamo allora un
atteggiamento moderno e spregiudicato dinanzi ad essa. In primo luogo
accettando che il nemico non è per definizione né un demonio né un
mostro, bensì uno come noi che persegue – magari talvolta
sbagliando e talaltra commettendo dei crimini – uno scopo analogo
al nostro: cioè vincere. À la guerre, comme à la guerre.
Una
guerra che comporta ovviamente la morte. Anche i tre attentatori di
Parigi sono morti: e la loro ideologia del martirio, sostenuta dagli
aderenti alla galassia dei gruppi che si riconoscono in al-Qaeda e le
parole d’ordine dei quali richiamano tanto da vicino il mori
lucrum paolino, è stata così a modo suo onorata. Non ci si
poteva certo aspettare che qualcuno li ritenesse degni a loro volta
di un, se non rispettoso, almeno compassionevole ricordo, a parte la
pietà cristiana che riguarda, appunto, solo i cristiani. Eppure
avremmo dovuto quanto meno occuparcene con maggiore attenzione: anche
nel nostro interesse. Le vicende delle loro esistenze, anche filtrate
attraverso la sprezzante distrazione dei media, parlano
il linguaggio della sofferenza, della fatica di vivere: l’infanzia
spesso infelice, solitaria, segnata da innominabili violenze subite;
la mancanza d’istruzione prima dell’«università del crimine»,
ovvero il carcere che ormai è spesso anche madrasa d’islamismo
fondamentalista; la disoccupazione o la sottoccupazione; il confronto
frustrante tra la propria emarginazione e l’opulenza di una città
che alberga pure tante tragedie umane ma dove in apparenza ricchezza
e spreco trionfano; il bombardamento dei messaggi consumistici
diffusi dai media con le umiliazioni di una realtà frustrante e
miserabile; in almeno un caso (mi riferisco a Coulibaly), turbe
psichiche che a loro volta costituiscono una malattia che ignoranza e
indigenza impediscono di curare; infine, la falsa redenzione di un
credo fanatico di morte che con l’Islam non ha nulla a che fare –
per quanto si nutra del nome di Dio proferito in quell’invocazione
«Allahu Akbar!» che in certe bocche e in certe circostanze suona
come una bestemmia – e di pochi versetti del Corano mandati a
memoria senza fede e non compresi né meditati.
Fanatici,
si è detto: ma come, ma perché si diventa fanatici, sino al punto
di trasformarsi anche in assassini? Fanatismo: davvero possiamo
accontentarci di questa spiegazione che non spiega un bel niente? E
davvero tanta gente, tra le decine di migliaia di parigini e di
francesi che in gennaio hanno affollato le vie e le piazze
manifestando la loro opposizione al terrorismo e il loro orgoglio di
liberi cittadini che non si piegano dinanzi alla minaccia armata, non
ha pensato nemmeno per un attimo che Parigi ha vissuto in tre giorni
forse meno di un millesimo dell’ansia, della paura, del dolore che
a Gaza, a Baghdad, a Kabul e in migliaia di città e di paesi sparsi
tra Asia e Africa musulmani, ebrei e cristiani soffrono ogni giorno?
«Siamo in guerra», hanno ripetuto in tanti. Anche papa Francesco –
come abbiamo già detto – lo ha affermato, qualche mese fa: la
terza guerra mondiale è già cominciata. Ma in guerra fra chi, in
guerra contro chi? Non si erano forse accorti, i francesi, di essere
in guerra già almeno dal 2011, quando il presidente Sarkozy ha
appoggiato con decisione le milizie jihadiste in Libia contro
Gheddafi e poi il presidente Hollande in Siria contro Assad (e ciò,
specie nel secondo caso, in diretto contrasto con le indicazioni
delle stesse chiese cristiane locali)? Anche a Tripoli, a Damasco, ad
Aleppo ci sono stati e continuano ad esserci dei morti: molti di più
di quelli dell’attacco terroristico di Parigi di qualche giorno fa.
Vi sono città dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina che
vivono ogni giorno moltiplicate per mille l’ansia, la paura, la
disperazione che Parigi ha vissuto per tre giorni; e moltiplicati per
mille e più i suoi morti.
Alcune
indiscrezioni rivelano che le costose armi automatiche usate dai
fratelli Kouachi per lo sterminio dei redattori di «Charlie Hebdo»
possono essere finite nelle loro mani in quanto parte delle dotazioni
a suo tempo passate dal governo francese ai jihadisti antigheddafiani
e antiassadisti. Ai jihadisti, tra i quali militano anche alcuni
ragazzi europei, magari convertiti all'Islam, che nel jihadismo
hanno trovato in forma distorta un surrogato a quella educazione
politica e religiosa che da noi ormai non s’impartisce più. Ma
davvero abbiamo la memoria tanto corta? Davvero abbiamo dimenticato
che fin dagli anni Settanta sono stati gli statunitensi che in
Afghanistan, in funzione antisovietica, si sono serviti dei
guerrieri-missionari fondamentalisti provenienti dall’Arabia
Saudita e dallo Yemen preferendoli ai severi e rigorosi combattenti
del comandante Massud, portatori di un Islam fiero e intransigente ma
anche tollerante? Davvero ignoriamo che la malapianta del
fondamentalismo l’abbiamo innaffiata e coltivata per anni noi
occidentali, prima che nella metà degli anni Novanta i rapporti si
guastassero? Sul serio non sappiamo nulla del fatto che ancor oggi il
jihadismo – quello di al-Qaeda e quello, rivale e concorrente,
dell’Islamic State (IS) del califfo al-Baghdadi – è
sostenuto e aiutato, e neppure in modo troppo nascosto, da alcuni
emirati della penisola arabica che pur sono tra i nostri più sicuri
alleati nonché – e soprattutto – partner finanziari e
commerciali? È vero che, com'è stato detto, pecunia non
olet: eppure almeno il petrolio dovrebbe farlo.
Ma
di tutto ciò, per ora, siamo ancora in troppo pochi a far parola.
Per la verità qualche critica comincia a far capolino: se non
granché tra gli opinion makers, quanto meno fra la
gente fra un blog e l’altro, fra un tweet e l’altro. Anche
se, purtroppo, la vulgata continua a trionfare: bella, semplice,
pulita. E maniacale, repellente nel suo manicheismo che si spera sia
almeno in malafede, perché altrimenti sarebbe troppo idiota. La
vulgata dell’Occidente come patria della libertà e della
tolleranza, e dell’Altro, il Nemico, come orribile, mostruoso,
disumano e quindi inumano e antiumano, fanatico e quindi privo di
qualunque ragione, incomprensibile e quindi ingiustificabile perché
indegno di quella forma di comprensione che non è sinonimo di
giustificazione (come si può giustificare un assassinio?) bensì
esercizio della critica, della capacità di penetrare i meccanismi
intimi di qualcosa che pur si disapprova con orrore. Noi occidentali
ci siamo sbrigativamente assolti da ogni errore e da qualunque
crimine: al massimo, siamo disposti a rovesciarli sul nazismo (che
però è un passo indietro verso il «buio medioevo») o sullo
stalinismo (che però è un tuffo nella «sanguinosa utopia») o
ancora, con uno sforzo di prospettiva storica un po’ più profonda,
suiconquistadores. Ma per il resto, notte e nebbia: su
secoli di rapina, di schiavismo, di sistematica razzia di materie
prime e di forza-lavoro, su cumuli d’infamie che abbiamo coperto
con la coltre benevola dei diritti dell’uomo e di una
libertà-fratellanza-uguaglianza che in realtà cominciava da noi e
finiva con noi, della quale eravamo di diritto soggetti e oggetti
esclusivi, almeno de facto. Anche i «lavoratori di tutto
il mondo» che Marx ed Engels esortavano a unirsi erano in fondo –
come abbiamo già osservato – quelli compresi nel triangolo tra
Parigi, Berlino e Londra: ne erano esclusi non diciamo
i fellahin egiziani e i pastori afghani, ma perfino
gli zappatori campani e i vignaioli greci.
Ecco
perché personalmente rispetto profondamente il sacrificio dei
redattori e dei disegnatori di «Charlie Hebdo» e mi sento solidale
e commosso partecipe del dolore delle loro famiglie: eppure, pur
sentendoli senza dubbio parte di quella cultura europeo-occidentale
che è anche la mia, non mi riconosco nella loro visione del mondo e
rivendico il mio diritto a dichiararlo con chiarezza. Essi erano, e i
loro colleghi e sodali continuano ad esserlo, fautori di una libertà
individuale illimitata, insofferente di limiti e di regole; una
libertà «sadica» (nel senso etimologico del termine) che d'altronde, nella civiltà europea, non è affatto l’unico
modello. Esistono anche quello aristotelico e quello kantiano di una
libertà responsabile che termina dove comincia quella altrui,
modelli che distinguono tra «libertà di», «libertà da»
e «libertà per». Una libertà che non pensa
orgogliosamente di potersi riallacciare a valori unilateralmente
dichiarati universali ma che, memore dell’insegnamento di Claude
Lévi-Strauss, tiene presente che è non meno universale e pertanto
degno di rispetto qualunque altro valore sostenuto alla luce di
culture diverse dalla nostra: diverse, non inferiori. Una libertà
che non si esercita calpestando quella altrui. Una libertà che sa di
non poter progredire senza la giustizia: il che, al giorno d’oggi e
arrivati a questo punto nel processo di globalizzazione, non può non
significare l’assunzione di una prospettiva di ridistribuzione
della ricchezza.
È
il problema che fin dal 2003, l’infausto anno dell’avventura
irakena, si era lucidamente posto Noam Chomsky in Hegemony or
survival. America’s quest for global dominance. Il
presidente Obama non era presente alla manifestazione parigina
dell’11 gennaio. Qualcuno l’ha accusato di aver perduto
un’occasione, di aver fatto un errore. Sia come sia, la sua assenza
era eloquente. In tempi di ormai irreversibile multilateralismo, la
questione egemonica non riguarda più gli Stati Uniti d’America, o
comunque non soltanto loro. Ed è questa global dominancela
realtà profonda del problema sotteso a quello che, maldestramente,
altri aveva definito clash of civilizations.
Le
religioni possono anche venire invocate come alibi per questo
scontro; e qualcuno, nella manovalanza del terrorismo islamista come
in quella dell’ottusa islamofobia di certi occidentali, può anche
pensare che ne siano causa effettiva. Ma le ragioni reali del
conflitto mondiale ormai aperto risiedono nello scontro fra la
brutale volontà di potenza di chi oggi detiene il controllo del
pianetaversus la fame e la sete di giustizia che anima,
in parte ancora inconsapevolmente, quella che Toni Negri ha a suo
tempo definito «la moltitudine». I troppi «dannati della terra»,
la cui esistenza non possiamo più ignorare se non altro perché essi
hanno imparato a conoscerci non per quello che sosteniamo di essere –
«la civiltà dei diritti dell’uomo» – bensì per quello che
siamo: non ignorano più né quello che abbiamo fatto e che
continuiamo a fare, né il livello di vita e di prosperità che le
conseguenze della nostra egemonia sul mondo ci hanno consentito di
raggiungere, né il costo in termini di sofferenza e di miseria che a
causa di ciò il genere umano ha dovuto sostenere
Dal sito www.laterza.it
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