La riforma del mercato del lavoro che il governo ha presentato lo
scorso aprile sotto la pressione dei mercati finanziari non è certo
quella di cui abbiamo bisogno. Ancora una volta non si è preso atto che
l’epoca della deregolamentazione non ha portato a più occupazione, ma a
disuguaglianze crescenti e a una maggiore precarietà, spingendo le
imprese su un sentiero di crescita di breve respiro. I più colpiti sono
stati i giovani, il cui ingresso sul mercato del lavoro è divenuto
frammentato e le cui prospettive sono ora messe in discussione dalla
peggiore crisi economica del dopoguerra. Se solo si riuscisse a mettere
da parte quella buona dose di ideologia che pervade molti dei discorsi
sul mercato del lavoro, avremmo modo di renderci conto che le
alternative al liberismo ci sono. E sono praticabili. Grazie al
contributo di economisti e studiosi del lavoro in Italia, il nuovo ebook
di Sbilanciamoci.info ci spiega perché l’impianto della riforma Fornero
non ci convince. E ci racconta come sia invece possibile sovrapporre la
logica del lavoro a quella del mercato (o dei mercati), scommettendo su
formazione, innovazione e una maggiore copertura sociale. Mentre i dati
sul lavoro peggiorano di mese in mese e il governo non vede alternativa
a quella che annuncia il peggioramento delle condizioni di chi lavora, è
bene mostrare che la strada segnata dall’austerità e dalla flessibilità
non è l’unica percorribile.
Quanto ai dati, nel 2011 sono stati
circa 23 milioni gli occupati in Italia.(1) Circa 2,1 milioni di persone
sono state invece in cerca di lavoro. Fra queste, la metà sono
ex-occupati, l’altra metà ex-inattivi o in cerca di prima occupazione. È
di quasi 2,9 milioni però la schiera di chi si dichiara disponibile a
lavorare senza tuttavia cercare attivamente un lavoro: fra questi, quasi
1,2 milioni dichiara espressamente di non cercarlo perché scoraggiato.
In Italia, il numero di questi “inattivi” è di molto superiore alla
media europea, quasi 5 volte quello della Germania, il triplo di quello
della Spagna. In parte, questo è dovuto all’assenza di una forma diretta
di sussidio di disoccupazione, in parte è il portato dell’economia
sommersa. Resta comunque un dato allarmante che si contrappone al dato
sulla disoccupazione (8,4%), ben al di sotto della media europea (9,6%).
Il tasso di occupazione, che misura il numero di lavoratori occupati sul
totale della popolazione fra i 15 e i 64 anni, è così uno dei più bassi
d’Europa, al di sotto della Spagna (al 57,7%) e ben al di sotto di
Germania (72,5%) e Francia (63.8%). La crisi ha reso più profonde queste
differenze: dal 2007, in Germania il tasso di occupazione è
sensibilmente aumentato (era al 69%), in Francia si è mantenuto stabile,
in Spagna è crollato (era al 65,6%). In Italia è caduto di poco più di
due punti percentuali: si tratta di più di 200 mila occupati in meno
(-1.2%) con un leggero recupero nell’ultimo anno (+0,4%). L’occupazione è
crollata soprattutto fra i giovani: dai 15 ai 34 anni è scesa del
16,3%, in calo di quasi 1,2 milioni di occupati, 530 mila nella fascia
fra i 15 e i 24 anni. È così in tutta Europa: in Spagna, nella stessa
fascia d’età, l’occupazione è crollata del 29% (più di 2 milioni di
posti di lavoro), in Francia del 3,5%.
Nel 2011, il tasso di occupazione per i giovani fra i 15 e i 24 anni è
al 19,4% (è al 36,5% la media dell’Europa a 15). Il tasso di
disoccupazione è al 29,1%. Se scomponiamo il tasso di disoccupazione
giovanile rispetto al livello di istruzione di chi si dichiara
disoccupato (classificazione Isced), si scopre che in Italia le
differenze fra i livelli di istruzione non corrispondono a differenze
significative nei tassi di disoccupazione. Non è così nel resto
d’Europa.
Nel 2011, secondo l’Istat, sono 2,7 milioni gli occupati stimati come atipici (con contratti a termine o collaboratori), saliti di 140 mila unità dallo scorso anno. Essi corrispondono a circa il 12% del totale dell’occupazione, una stima dell’estensione del lavoro “precario” in Italia. Solo una stima però, perché alcune figure professionali non sono considerate nel conto.
Come è noto, questa è solo una faccia della medaglia. Secondo l’Istat, il 77,3% dei nuovi contratti stipulati nel 2011 sono atipici, ogni 5 contratti solo 1 è a tempo indeterminato. E i più colpiti sono i giovani nella fascia fra i 15 e i 29 anni. Per di più, questi contratti sono distribuiti prevalentemente nel settore dei servizi, nella ristorazione e nei servizi sociali, dove le retribuzioni sono generalmente più basse. Ciò che colpisce però sono le differenze nella distribuzione dell’occupazione per professione fra il nostro paese e il resto dell’Europa, un indicatore della qualità del lavoro che viene offerto ai giovani. Fra i 15 e i 24 anni, la quota dei lavoratori nelle prime 3 classi professionali (secondo la classificazione Isco) risulta più bassa di più di 5 punti percentuali rispetto alla media dell’Europa a 15. Nel 2011, infatti, poco più del 16% dell’occupazione giovanile in Italia lavora come manager, professionisti o tecnici. In Germania, le stesse classi raccolgono circa un terzo dei giovani occupati, in Francia un quarto, in Spagna poco più dell’Italia. Queste differenze si riducono se osserviamo la distribuzione per professione per il totale degli occupati: l’Italia è infatti 3 punti percentuali sopra la media Ue, con una quota di manager, professionisti e tecnici che supera la Spagna ma resta al di sotto di Germania e Francia.
Nel 2011, secondo l’Istat, sono 2,7 milioni gli occupati stimati come atipici (con contratti a termine o collaboratori), saliti di 140 mila unità dallo scorso anno. Essi corrispondono a circa il 12% del totale dell’occupazione, una stima dell’estensione del lavoro “precario” in Italia. Solo una stima però, perché alcune figure professionali non sono considerate nel conto.
Come è noto, questa è solo una faccia della medaglia. Secondo l’Istat, il 77,3% dei nuovi contratti stipulati nel 2011 sono atipici, ogni 5 contratti solo 1 è a tempo indeterminato. E i più colpiti sono i giovani nella fascia fra i 15 e i 29 anni. Per di più, questi contratti sono distribuiti prevalentemente nel settore dei servizi, nella ristorazione e nei servizi sociali, dove le retribuzioni sono generalmente più basse. Ciò che colpisce però sono le differenze nella distribuzione dell’occupazione per professione fra il nostro paese e il resto dell’Europa, un indicatore della qualità del lavoro che viene offerto ai giovani. Fra i 15 e i 24 anni, la quota dei lavoratori nelle prime 3 classi professionali (secondo la classificazione Isco) risulta più bassa di più di 5 punti percentuali rispetto alla media dell’Europa a 15. Nel 2011, infatti, poco più del 16% dell’occupazione giovanile in Italia lavora come manager, professionisti o tecnici. In Germania, le stesse classi raccolgono circa un terzo dei giovani occupati, in Francia un quarto, in Spagna poco più dell’Italia. Queste differenze si riducono se osserviamo la distribuzione per professione per il totale degli occupati: l’Italia è infatti 3 punti percentuali sopra la media Ue, con una quota di manager, professionisti e tecnici che supera la Spagna ma resta al di sotto di Germania e Francia.
Oltre alla questione dei giovani, in Italia, come nel resto d’Europa, la
crisi ha esasperato le differenze di genere e reso più profonde le
differenze territoriali. Il tasso di occupazione femminile resta al 2011
più di 20 punti percentuali inferiore a quello maschile. La
disoccupazione è cresciuta soprattutto al Sud dove il tasso di
occupazione è ora al 44%, più di 20 punti sotto la media europea (in
Grecia il tasso di occupazione è del 55.6%). Nel Sud si trova poi la
maggior parte dei lavoratori inattivi disponibili a lavorare senza
cercare lavoro (quasi 2 milioni).
Osservando la composizione dell’occupazione per attività economica si esaminano le opportunità di crescita di un sistema produttivo e la qualità del lavoro che viene richiesto. In Italia, nell’anno 2007, solo il 35% degli occupati nel manifatturiero è in settori considerati a media-alta tecnologia; il restante 65% è occupato nei settori più tradizionali, dove minore è la spinta all’innovazione, minori i salari e peggiori le condizioni di lavoro. In Germania, il quadro è capovolto: la metà circa degli occupati nel manifatturiero è in settori ad alta tecnologia. In Francia, le proporzioni nel manifatturiero sono le stesse dell’Italia ma nei servizi il 57% degli occupati è in settori ad alta intensità di conoscenza, contro il 51% tedesco e il 46% italiano. Si tratta di debolezze strutturali che l’Italia paga con una più bassa produttività e minori opportunità di crescita. In più, se dei 23 milioni che lavorano in Italia il 20% è occupato nel settore manifatturiero, di questi solo il 17% lo è nel Sud, poco più di 800 mila occupati. Qui la maggior parte degli occupati è nei servizi (il 72% contro una media nazionale del 68%) e una buona parte nel settore delle costruzioni e nell’agricoltura.
Le debolezze del nostro sistema produttivo finiscono per penalizzare le
retribuzioni del lavoro. Le retribuzioni lorde annuali risultano nel
2008 in linea con la media europea ma sono ben al di sotto di Germania e
Francia e dei paesi nordici. Secondo l’Istat, il reddito netto medio è
di 1.286 euro, più alto per gli uomini che per le donne, con una
disuguaglianza nella distribuzione dei redditi dell’Italia ben più alta
della media europea, come quella di Spagna, Grecia e Regno Unito.Osservando la composizione dell’occupazione per attività economica si esaminano le opportunità di crescita di un sistema produttivo e la qualità del lavoro che viene richiesto. In Italia, nell’anno 2007, solo il 35% degli occupati nel manifatturiero è in settori considerati a media-alta tecnologia; il restante 65% è occupato nei settori più tradizionali, dove minore è la spinta all’innovazione, minori i salari e peggiori le condizioni di lavoro. In Germania, il quadro è capovolto: la metà circa degli occupati nel manifatturiero è in settori ad alta tecnologia. In Francia, le proporzioni nel manifatturiero sono le stesse dell’Italia ma nei servizi il 57% degli occupati è in settori ad alta intensità di conoscenza, contro il 51% tedesco e il 46% italiano. Si tratta di debolezze strutturali che l’Italia paga con una più bassa produttività e minori opportunità di crescita. In più, se dei 23 milioni che lavorano in Italia il 20% è occupato nel settore manifatturiero, di questi solo il 17% lo è nel Sud, poco più di 800 mila occupati. Qui la maggior parte degli occupati è nei servizi (il 72% contro una media nazionale del 68%) e una buona parte nel settore delle costruzioni e nell’agricoltura.
Sono questi i numeri del lavoro in Italia. Numeri segnati dalla crisi e dal fallimento di politiche del lavoro incentrate sulla riduzione della regolazione e la diminuzione delle tutele. Politiche che si sono rivelate nei fatti pro-cicliche e che hanno prodotto una corsa internazionale al ribasso sulle condizioni dei lavoratori.
Dal sito www.sbilanciamoci.info
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