Centrale,
nei principali documenti di programmazione europei e nazionali, è
l’idea di un mercato del lavoro mobile, ma in senso virtuoso, in cui tra
lavoratori e imprese è facile incontrarsi grazie al supporto di
meccanismi di controllo e regolazione della mobilità.
La
qualifica, è questa la parola magica, è ritenuta artefice in gran parte
del buon esito dell’incontro tra lavoratori e imprese. Ciò nonostante,
il dibattito di cui è stata oggetto negli ultimi 20 anni ne ha
indebolito il senso. I suoi elementi costitutivi, spesso riassunti nei
concetti di apprendimento e competenza, sono stati oggetto di accesi
dibattiti, tanto nell’arena scientifica quanto in quella istituzionale,
dai quali sono proliferati significati e interpretazioni. Una situazione
che ha contribuito a produrre criteri di validazione e certificazione
delle “competenze” dei lavoratori eterogenei, diffusi in modo non
uniforme sul territorio e non validi in tutto il paese, pertanto
ignorati dagli stessi interessati (lavoratori e imprese).
La
crisi del lavoro e della formazione da 20 anni è crisi di sistema: il
mondo corre e l’Italia è ferma, non è flessibile, è ingessata dalla
burocrazia e dal conservatorismo. Ci sono delle eccellenze, il sistema
produttivo italiano che tira è quello che ha investito, ha innovato ed
esporta su tutti i mercati, mentre le aziende dipendenti solo dai
consumi interni soffrono e falliscono per le loro scelte localiste. C’è
un rapporto difficile, quasi senza speranza, tra regioni, istruzione,
università e le imprese per formare e riformare professionalmente i
lavoratori.
Entro
il 2050 il mondo, soprattutto l’area BRIC (Brasile, Russia, India,
Cina) raddoppierà i suoi abitanti mentre il Belpaese vedrà un
aggravamento della crisi demografica, di qui la necessità di prendere
delle contromisure. Di tutto questo, delle “certificazioni”, parliamo
con Amarildo Arzuffi, responsabile dell’Area Formazione di Fondimpresa.
Ormai
da molti anni si parla di validazione e certificazione, e le esperienze
a tale riguardo sono state molte. Ciononostante, soprattutto nel
contesto italiano, si assiste all’incapacità di portare a sistema queste
esperienze dando vita a dei meccanismi stabili di validazione e
certificazione. Tanto più quando si parla di apprendimenti non formali
ed informali.
Intanto
mi accontenterei di avere qualche meccanismo di certificazione delle
competenze formali. Per questioni di tipo costituzionale e strutturale
questo paese è un paese a federalismo mancato, dove oltre dieci anni fa
si è dato pieno mandato alle autorità regionali in questa materia, non
coordinando tra l’altro le politiche di formazione e di istruzione
(altro grande problema perché non riusciamo a pensare a un sistema
complessivo dell’education, ma pensiamo a canali scollegati). Questa
assunzione di poteri da parte delle regioni non ha prodotto, se non a
macchia di leopardo, alcun risultato.
È
importante chiedersi quanto un sistema decentrato possa rispondere alle
esigenze del paese. Ad esempio, in tema di certificazione ho
partecipato a un focus nella provincia di Bolzano la quale, nonostante
sia una provincia che funziona bene e spende bene, non ha un repertorio
delle competenze, quindi non può procedere ai processi certificativi. Si
poneva, quindi, il problema di un repertorio delle competenze, cosa
splendida, ma magari un po’ in ritardo. Il problema è: ci serve
l’ennesimo repertorio delle competenze della provincia di Bolzano?
Il
problema dell’Italia è che ha una quantità troppo significativa di
forza lavoro dequalificata, un corpo intermedio troppo stretto rispetto
alle esigenze della modernità e anche tanti laureati con lauree poco
interessanti. Il primo problema è come far crescere qualifiche
bassissime, il secondo è come favorire il riciclo delle qualifiche alte
oggi non utili sul mercato del lavoro. Le faccio un esempio più
calzante: in questo periodo abbiamo situazioni di ingegneri a elevata
professionalità che sono stati in azienda per molti anni e semplicemente
quell’azienda è venuta meno perché è venuto meno quel tipo di prodotto
su cui lavoravano o il mercato di riferimento. Abbiamo bisogno di
riposizionare questa forza lavoro. Una volta gli ingegneri erano i
manager, oggi sono i quadri, gli impiegati. Anche qui, con gli strumenti
tradizionali della formazione professionale regionale dove vado? Anche
se avessi un quadro delle qualifiche ho bisogno di pensare a meccanismi
che si incardinino anche alle istituzioni e a titoli di studio
ufficiali.
Ricapitolando,
ci troviamo innanzi a tre problemi. Il primo problema riguarda la
portata complessiva del sitema: visto che abbiamo perso vent’anni
sarebbe opportuno iniziare a pensare un sistema di
validazione/certificazione con schema ampio, che tenga in considerazione
anche il sistema dell’istruzione, non solo la formazione professionale,
favorendo in tal modo i passaggi tra le due sfere. Il secondo problema è
rappresentato dalla necessità di definire un repertorio nazionale di
base delle professioni (perché con questo sistema regionalizzato non si
può più andare avanti); terzo problema, bisogna avviare una politica dei
servizi: tutto il paese è strutturato intorno a un welfare passivo, le
discussioni di questi giorni sono relative alla riduzione del welfare
passivo, ma di politiche di welfare attivo non se ne vedono.
Dall’esame
di 55 casi di validazione/certificazione da noi condotta nel progetto
SAVing è emersa una discreta confusione sul piano terminologico: spesso
nelle diverse esperienze esaminate si sovrappongono i termini di
validazione e certificazione, li si usa quasi a livello di sinonimi.
Anche
io avrei difficoltà oggi ad usare in maniera tecnica questo tipo di
terminologia perché la sua declinazione, che c’è in letteratura ed è
svariata, diventa tecnica nel momento in cui c’è un richiamo legislativo
che la concreta.
Quindi secondo lei c’è una carenza a livello di indirizzi?
Dobbiamo
tenere presente che stiamo parlando di cose che non ci sono, e che sono
tradotte dall’inglese piuttosto che dal francese. Un mio amico
psicologo del lavoro dice che fraintendersi è un modo per imparare. Però
il problema è che su questo tema ci fraintendiamo molto perché parliamo
di una cosa che non c’è, quindi si finisce con il riferirsi alla stessa
cosa utilizzando termini diversi.
È
come il problema della confusione enorme che c’è in Italia tra
formazione continua ed educazione degli adulti. Essendo tutti e due
degli oggetti limbo, spesso chi se ne occupa tende a metterli insieme.
Sono due cose completamente differenti in letteratura e, aggiungerei,
più o meno differenti anche in relazione al contesto in cui sono messe
in pratica. In Inghilterra, dove c’è un sistema totalmente diverso dal
nostro, il confine tra queste due realtà è molto lasco, e ciò dipende da
come è strutturato il metodo di riconoscimento delle competenze
inglese; mentre in Francia dove sono cartesiani hanno separato i canali
anche se con possibilità di contatti. Ma la definizione esiste quando
esiste un oggetto; il problema è che non abbiamo oggetti concreti, e
quindi è molto facile che io parli di una cosa e lei ne intenda
un’altra.
Quindi, a suo avviso, quali sono le differenze principali tra validazione e certificazione?
Intanto io parlerei di certificazione quando ci sono elementi terzi, e la terzità
sia anche concretata da un organismo terzo e statale. Il processo di
validazione a mio giudizio è un processo di tipo negoziale. Questo può
avvenire all’interno delle singole imprese e ha il pregio di essere più
elastico e di poter individuare oggetti che possono sfuggire ai
repertori, però fuori da questo “negozio” il rischio è di non poter
vendere il prodotto (ad esempio la competenza del lavoratore) perché non
esiste un criterio in grado di visibilizzarne le caratteristiche.
Processi di validazione interni possono apportare valore nella
certificazione, ma non bastano perché temo possa prevalere la logica
negoziale delle parti su un’oggettiva validazione di parte terza. È
chiaro che anche nella parte terza possono nascondersi problemi e
difetti sul piano dell’attuazione della propria attività (irregolarità,
inadempienze e quant’altro); però il sistema l’hai costruito e quella
persona di mestiere fa il certificatore con tutto ciò che comporta anche
in termini di responsabilità. È importante definire etichette utili per
descrivere che cosa sanno fare le persone; ma le etichette hanno un
valore quando qualcuno le può controllare, ovvero quando c’è un
certificatore.
Però
questa etichetta, che certifica rispetto ad uno standard, mi sembra che
diventi ancora più complessa da gestire quando si parla di non formale e
informale. Lì a suo avviso è possibile definire degli standard? O
comunque, qual è il criterio di certificazione?
Qui
abbiamo bisogno di capire quale è la finalità della certificazione. Le
faccio un esempio: il più banale e vecchissimo strumento che in questo
paese una volta esisteva e adesso non c’è più, ovvero l’accertamento di
qualifica. Prima del sovrapporsi di queste riforme del mercato del
lavoro uno poteva andare all’ufficio di collocamento e chiedere un
accertamento di qualifica, si riuniva una commissione che aveva il
compito di riconoscere tale qualifica sulla base di capolavori (in
questo caso stiamo parlando di tornitori), di prove tecniche e di
competenza generale. Si trattava di una forma molto antica, se vuole, di
accertamento di competenze acquisite in luogo di lavoro.
Quindi anche sulla base di dinamiche informali?
Cosa
bisogna sapere per avere una qualifica? Ad esempio, io lavoratore
svolgo da tanti anni questo lavoro, non ho fatto i corsi, vengo, faccio
le prove e passo gli esami. Esami da privatista, chiamiamoli così. Un
tempo funzionava così; e riceveva almeno la qualifica. Ora è una prassi
scomparsa.
Altro esempio è quello francese dei centri di bilancio di competenza,
dove uno decide che da pasticcere vuole passare a fare il parrucchiere.
Lì certificano le competenze che compongono la sua professionalità, che
sono traslabili in un percorso di formazione per fare il parrucchiere:
ad esempio il rapporto con la clientela o una serie di competenze nella
gestione delle relazioni. E in caso gli prescrivono invece il passaggio
formativo obbligatorio per poter raggiungere quella qualifica
professionale. Una sorta di sistema dei crediti, che potrebbe andare
bene nel sistema professionale ma anche nel sistema dell’istruzione
tecnico superiore o in quello dei crediti universitari. Stiamo parlando
però ancora di competenze legate al lavoro. Un’altra cosa sono alcune
competenze, queste molto più complicate, di tipo organizzativo o
relazionale, apprese fuori dai luoghi di lavoro; ma anche lì esistono
delle technicality. Per esempio io conosco molto meglio, perché
ci ho lavorato anni fa, il sistema francese: esistono dei modi per
definire quel tipo di competenza e riconoscerla in un percorso
professionalizzante.
Torno a dire, il tema è a cosa ci serve la certificazione. A mio parere
la certificazione dovrebbe servire non da curriculum, perché rischiamo
di trasformarci in un paese spagnoleggiante del ‘500; dovrebbe invece
servire proprio per raggruppare le competenze, ordinarle, completarle e
portarle poi a una certificazione di sintesi, a una qualifica.
Il rischio potrebbe essere una deriva credenzialista?
Noi
siamo bravissimi a fare il barocco, insieme alla Spagna; ma dobbiamo
evitarlo. Deve essere ben chiaro dove porta il processo certificativo.
Non alla produzione di carta. È anche per questo che servono dei criteri
nazionali in cui inquadrare le competenze, perché il rischio che dalla
Sicilia alla Val d’Aosta si creino dei repertori barocchi è
meraviglioso.
Chi è il beneficiario ultimo di un sistema di validazione e certificazione?
In
un mercato del lavoro come quello odierno ci sono tre tipi di
beneficiari: uno è l’impresa nell’acquisizione di forza lavoro, nel
senso che tutto questo dovrebbe consentire un migliore incontro di
domanda-offerta, con la possibilità per l’impresa di ridurre (perché non
sono abbattibili) i costi inevitabili dell’inserimento della forza
lavoro (perché ha trovato una persona che è skillata il più possibile in
linea con le sue esigenze). Il sistema può quindi abbattere il costo
del recruitment, consentendo di individuare meglio ciò di cui ha
bisogno. Il secondo beneficiario è il lavoratore. Un sistema di
validazione e certificazione è un elemento di libertà per il lavoratore.
Vedersi riconoscere le proprie competenze significa anche apprezzarsi
in un mercato del lavoro complicato, e saper riconoscere cosa fare per
migliorarsi, ma anche saper valutare il proprio valore e muoversi in
quel mercato. Infine c’è il cittadino consumatore finale, che sarebbe
maggiormente tutelato in un sistema in cui fossero visibili e
trasparenti le competenze presenti in ambito aziendale; per riconoscere
le organizzazioni di qualità che sono in grado di dare prodotti o
servizi di qualità è importante vedere anche chi ci lavora. Quindi
un’organizzazione che mette in trasparenza le sue competenze interne e
le dichiara secondo me è un elemento di tutela del cittadino
consumatore.
Parlando
nello specifico del lavoratore mi sembra quindi che lei veda un valore
economico della certificazione, cioè la certificazione è uno strumento
attraverso il quale il lavoratore può dare maggior peso e spessore alla
sua spendibilità sul mercato.
Sì,
ma non solo questo. La certificazione può essere un modo per influire
sulla dimensione economica, ma anche sulla consapevolezza di sé. La
formazione diventa anche un metodo per capire quello che devi fare se
vuoi cambiare: da questo punto di vista è la trasformazione
dell’adolescente in adulto. A volte abbiamo situazioni di persone che
fanno lavori spiacevoli o che comunque loro non amano; cambierebbero per
fare altro, però non sanno come fare perché non sono in grado di capire
come farlo. E passano la vita nella speranza di cambiare. Se io invece
avessi un posto dove mi dicono: “tu sai fare queste cose, ti aiuto a
pensarci, per fare quelle altre cose devi imparare queste; forse è un
sogno impossibile quindi cambia sogno perché altrimenti ti rovini la
vita, o forse è possibile ma devi fare questi sacrifici per farlo”.
Secondo me questo è un passaggio dall’adolescente all’adulto. È un
servizio utile, professionale e culturale. Io non vedo la certificazione
come un prodotto, ma come un processo. Inoltre non userei il termine
cambiamento perché presuppone sempre percorsi gerarchici verticali, ci
possono essere anche desideri di persone che vogliono fare spostamenti
orizzontali; dobbiamo iniziare a pensare anche carriere orizzontali, non
reggiamo più con questo mondo pensato solo sulle carriere gerarchiche.
A
suo avviso la certificazione ha un valore diverso in relazione al tipo
di categoria occupazionale? Cioè, abbiamo delle categorie di soggetti
che potrebbero beneficiarne mentre per altri in sostanza potrebbe essere
indifferente la presenza o meno di certificazione?
Si,
nel nostro paese non abbiamo grandi meccanismi di certificazione e quel
poco che c’è interessa le fasce medio alte del mercato del lavoro. Ciò
dipende dal fatto che siamo una delle società più statiche dal punto di
vista della mobilità sociale dell’occidente capitalista.
I sistemi di certificazione sono un metodo utile (insieme a molti altri,
ovviamente) per rispondere a un’idea di paese e di sistema che si ha in
testa. In un sistema in cui il mio problema è mantenere una statica
sociale e non favorire la mobilità sociale, un sistema di certificazione
non mi serve. Se io infatti certifico che una persona fa il manovale
carpentiere e gli dico anche che lo dovrà fare per tutta la vita, lì
siamo a un’abilitazione di ingresso, tipica dell’apprendistato in
svizzera, molto valido, però poi a quel punto posso pensare solo a dei
meccanismi di validazione quasi contrattuali per consentirgli di
incrementare il suo reddito in quella posizione per tutta la vita. Il
problema del sistema di certificazione è legato a un’idea di società che
ha, se non come effettività, almeno come potenzialità una sorta di
mobilità sociale, trasversale, verso l’alto e professionale. La
certificazione, invece, mi serve se esco dall’idea che uno faccia il
carpentiere tutta la vita. Allora devo iniziare a pensare a come
intervenire su di lui perché se fra dieci anni non gli ho fatto fare
altro che questo non posso che rottamarlo. Quindi inizio a tenerlo con
un piede legato in un sistema di educazione; allora lì sì che mi serve
la certificazione. Una società statica non ha bisogno di formazione
continua; se si immagina una società in cui chi sta sotto non deve avere
neanche una possibilità di salire non servono certificazioni. Porsi il
problema della certificazione vuol dire porsi la possibilità di un
minimo di mobilità sociale e professionale. In quel caso può servire a
tutti.
Ragionando
più in generale sul mercato del lavoro, in che modo un sistema di
certificazione può favorire il matching tra domanda e offerta?
In
parte la risposta è inclusa in ciò che abbiamo già detto in precedenza.
Sul fronte delle imprese un buon sistema di certificazioni potrebbe
ridurre i costi d’inserimento (riducendo i tempi necessari per
individuarla e fornendo delle garanzie su ciò che mi posso aspettare da
quella persona in base alla sua certificazione, io sarò infatti
alleggerito dei costi di ricerca e prova legati all’inserimento in
azienda); per il lavoratore, invece, la certificazione (ma soprattutto
l’iter necessario per conseguirla – come le ho già detto considero la
certificazione soprattutto come un processo) può contribuire a
chiarirgli i propri orizzonti professionali consentendogli di
intraprendere il giusto percorso di crescita prima e con meno rischi di
errore (“io so tanto, io so poco, in quel campo lì sono l’unico, posso
farmi pagare bene, posso farmi pagare male”).
Esiti di questo tipo, tuttavia, presuppongono che esista un sistema di
servizi per il lavoro. Il che, a sua volta, non può prescindere da una
più ampia e accurata riforma del mercato del lavoro che è sempre più
urgente considerando i mutamenti strutturali che stanno investendo il
nostro paese. Due tra tutti: da qui a dieci anni il nostro paese sarà
investito da grandi rivoluzioni demografiche. Laurence C. Smith immagina
che, in un mondo che avrà quasi due volte la popolazione attuale nel
2050, l’Italia sarà investita da una marcata decrescita demografica, al
lordo del saldo degli immigrati che arriveranno. Abbiamo, dunque, il
problema di un paese che non ha più giovani, dove sarà sempre più
necessario tenere al lavoro gli anziani e inserire gli immigrati.
Accanto a ciò il lavoro tende purtroppo a diventare sempre più mobile.
Pur non essendo un esegeta della modernità non posso non prenderne atto.
Prima della crisi un mio amico ha condotto un lavoro sulla mobilità
professionale in Romagna consultando 5 annualità di movimenti negli
archivi informatizzati regionali. I dati evidenziavano che in 5 anni
l’80% dei lavoratori (articolo 18 vigente) aveva cambiato posto di
lavoro, cioè in un periodo non di crisi e in una regione ricca. Ciò
significa che ormai la mobilità professionale è una condizione che fa
parte della natura del paese.
Siamo quindi in una situazione in cui è necessario un sistema in grado
di supportare gli attori del mercato nella gestione di dinamiche più
complesse di quanto non fossero prima, soprattutto supportarli nel
cambiamento dei loro percorsi lavorativi. Strumenti per aiutarli a
capirsi e a capire i propri interlocutori, per decidere se e come
riformulare i propri percorsi di crescita e sviluppo. Non credo debba
essere un sistema statale, può essere anche gestito come nella regione
Lombardia in accordo con le società interinali che fanno un servizio
pubblico ma sono soggetti privati, però bisogna costruire servizi per il
lavoro.
L’impressione
che ho avuto, nel progetto SAVing e in altre indagini che abbiamo
condotto negli ultimi anni, è di una sostanziale sfiducia da parte delle
imprese nella possibilità di un certificatore. Ricorrenti sono
espressioni quali “la persona la scelgo io basandomi su una serie di
segnali e indicatori che valuto io internamente”. È come se ci sia una
sostanziale sfiducia nell’accogliere un soggetto che ha una
certificazione.
Qui siamo di fronte a due situazioni diverse: i piccoli imprenditori possono avere questo tipo di approccio: “io conosco gli uomini; so io cosa mi serve; io non certifico niente perché poi il lavoratore vuole più soldi, o se ne va”.
Si tratta di un approccio miope. Il lavoratore che è capace, se si
accorge di essere capace se ne va se non lo paghi o se non gli dai i
riconoscimenti; quindi i bravi li perdi, e in più svaluti le persone che
hai in casa perché non le fai crescere. E alla fine queste cose le
paghi. E questo è uno dei grandi problemi della piccola impresa del
nostro paese. Sulle grandi le cose stanno cambiando. L’ho visto nella
mia esperienza qui a Fondimpresa: per anni, nel dibattito interno,
abbiamo avuto difficoltà a far passare la parola certificazione, perché
Confindustria temeva i possibili risvolti negativi di cui abbiamo già
parlato (rigidità degli imprenditori a causa dell’accresciuto potere
contrattuale dei lavoratori certificati). Ad un tratto c’è stata la
“ribellione” delle grandi e soprattutto delle PMI, quelle vere, che
hanno rifiutato questo stereotipo poiché, per i loro sistemi interni di
qualità, hanno bisogno di dimostrare che fanno formazione e che
certificano i lavoratori. Queste aziende hanno capito che per andare sui
mercati internazionali devono essere certificate, che non bastano
politiche di prezzo, che vengono richiesti ormai standard di qualità che
investono anche tutte le politiche del personale, tra le quali rientra
la formazione. Quindi la certificazione può essere uno strumento
competitivo. Ma ribadisco che, tre anni fa, si è riusciti a sbloccare
questa parola d’ordine e ad introdurla nei bandi solo grazie a questo
pezzo del mondo delle imprese, che è quello che va sui mercati
internazionali, che si è reso conto del vantaggio competitivo che
rappresenta. Il problema è che si trovano ancora forti resistenze nelle
organizzazioni che non sono esposte ai mercati internazionali.
In generale la piccola e la micro impresa, e l’artigianato,
rappresentano una dimensione imprenditoriale che rischia di andare tutta
fuori mercato. Oramai per andare sul mercato devi avere una rete di
consulenti finita, composta dall’esperto di export, dall’avvocato,
dall’esperto di banche, dal commercialista, ecc… rischiando così di
avere più consulenti che dipendenti. Per governare una rete di
consulenti come quella però, e non farsi depredare e perdere, è
necessario che il livello imprenditoriale sia molto alto e difficile da
gestire. Per tanti anni abbiamo considerato questo tessuto di piccole e
micro imprese come il futuro del paese; oggi il mondo è cambiato, e
ritengo che siano invece un peso per il paese. Credo che usciremo da
questa crisi con molte di quelle imprese non più in piedi. Non è un
bell’auspicio, perché è un problema di ristrutturazione generale del
paese.
Sulla
base delle sue esperienze saprebbe citare degli esempi di metodologie
di certificazione che hanno sortito un effetto positivo?
Le
faccio un esempio semplicissimo: un progetto dell’Università Roma Tre,
coordinato dalla professoressa Alberici. Sono stati bravi perché hanno
utilizzato una strategia molto efficace. Hanno inserito nello statuto
dell’università un sistema di riconoscimento dei crediti di accesso
all’università che funzionava in questo modo: il lavoratore accedeva ai
crediti passando attraverso un laboratorio di accertamento delle
competenze, certificato in conformità a uno standard francese e
legalmente riconosciuto in quel paese. Hanno introdotto, quindi, nello
statuto dell’università la possibilità di riconoscere i crediti
rilasciati da questo centro, certificato secondo la legislazione
francese, e poi hanno rivolto questa procedura di certificazione a una
tipologia di studenti specifica: i diplomati lavoratori della PA che per
accedere ai concorsi interni per titoli ed esami avevano bisogno della
laurea. Ad oggi, Scienze della Formazione a Roma Tre ha quasi il 50%
degli iscritti che sono studenti lavoratori, ultra trentenni che stanno
completando il ciclo di studi. Questo meccanismo, che è di
certificazione passerella, è secondo me estremamente interessante.
In questo caso però loro hanno fatto riferimento a uno standard esterno.
Per
forza, non avendo uno standard a disposizione il loro laboratorio si è
rifatto alla legislazione francese dal momento che in Italia non abbiamo
fatto una legislazione sui centri per il bilancio delle competenze.
Ma a suo avviso questo meccanismo potrebbe essere importato e applicato su più ampia scala in Italia?
Si
tratta sicuramente di un esempio circoscritto alla sfera
dell’education. In Europa c’è una legislazione e degli strumenti che
rendono omogenei i titoli di studio [n.d.r. il Framework europeo e le
codifiche ISCED]. L’università, quindi, può accettare studenti con
titoli di studio e certificazioni di altri paesi. Di certo non è un
esempio automaticamente applicabile al mondo del lavoro. In questa sfera
un altro problema rilevante è rappresentato dalla diffidenza che molti
datori di lavoro nutrono in sistemi di certificazione presidiati
prevalentemente dai professionisti dell’istruzione, soprattutto dai
professori. Io credo sia necessario un passo ulteriore: immaginare dei
modelli di certificazione istituzionale che acquisiscano
obbligatoriamente validazioni da parte di persone che non sono
professori nè pubblici ufficiali, ma datori di lavoro, capi reparto,
ecc. In Francia lo fanno. Si può introdurre in un programma di
certificazione anche questo, cioè il fatto che la certificazione sia il
timbro finale al fatto che il lavoratore abbia acquisito una serie di
conoscenze e competenze le quali possono essere rilasciate anche da
soggetti competenti della materia riconosciuti dalle associazioni
industriali locali. La cosa che non possiamo fare è trasformare il
processo di certificazione in un sistema di referenze, per il quale alla
fine di un’esperienza lavorativa il datore di lavoro ti scrive che sei
stato bravo, e vieni assunto. La certificazione non può dipendere
dall’umore del singolo datore di lavoro, perché in questo caso non ci
sarebbero più diritti individuali.
Quindi,
sulla base dello scenario che ha disegnato, qual è la possibilità in
Italia di arrivare a degli standard di validazione e certificazione?
Mi
auguro che finita questa ondata di trasformazione istituzionale, con la
prossima legislatura, anche su pressioni europee, il governo obblighi
le regioni e il MIUR a produrre strumenti che siano almeno al passo con
quanto ci chiede l’Europa. Pensi che in materia di formazione continua
l’ultimo intervento di un qualche valore l’ha fatto Maroni nel 2003,
istituendo i Fondi sulla base dell’accordo di Natale di D’Alema nel
1999; sono passati dieci anni e non c’è un atto parlamentare. Nessuno ha
pensato di rivisitare in qualche modo il tema della formazione
continua? In dieci anni è cambiato il mondo. Quindi noi ci dovremmo
arrivare perché ce lo chiede l’Europa e avremmo bisogno intanto di atti
di governo.
Certo non si può che apprezzare lo sforzo del Ministro (n.d.r. Elsa
Fornero), che sul tema delle validazioni e certificazione ha tentato un
esercizio necessario di scrittura di alcuni canoni. A inizio settembre
2012 è stato varato il regolamento per il funzionamento del sistema di
educazione degli adulti e sono state anche individuate risorse per
attivarlo. Si stanno facendo alcune esperienze di qualche livello,
quindi qualche segnale c’è. Trovo però che questo schema proposto sia
neoistituzionalista e pensato soprattutto sull’offerta pubblica
dell’istruzione; non c’è un’idea complessiva di education, ma c’è più
che altro un’idea di scuola. E francamente è questo il punto debole,
perché mentre il sistema dell’istruzione può affrontare l’esigenza
dell’ingegnere elettronico che deve diventare ingegnere gestionale,
sulle basse qualifiche andare a parlare di un sistema scuolacentrico è
un errore. Si tratta di persone che sono scappate dalle scuole e non ce
le riporteremo mai. Quindi rischiamo di escludere la fascia più debole
della popolazione di cui parlavo prima, che sarà anche il nodo critico
del paese nei prossimi anni. Non è solo un esercizio compassionevole
occuparsi degli ultimi; il problema è che non possiamo reggere un tasso
di disoccupazione così elevato nei ceti medio-bassi perché ciò comporta
dei costi sociali altissimi. Quindi cercare di aumentare la capacità di
stare sul mercato del lavoro è un’operazione che ha una sua importanza
anche dal punto di vista economico, oltre che morale.
In definitiva, intorno a quali soggetti dovrebbe strutturarsi un sistema di validazione e certificazione?
Io
continuo a dire che l’atto finale non è di tipo negoziale ma è di tipo
certificativo, e quindi a mio giudizio va affidato a un soggetto terzo; è
una funzione pubblica. Poi questa funzione pubblica la può esercitare
anche un privato accreditato presso lo stato o uffici statali, però
quello è il punto di arrivo. Non credo in un processo tutto bilaterale
della validazione delle competenze perché debole per i motivi che le
dicevo: o tende allo scambio politico o, se una delle due parti è troppo
forte, tende all’imposizione. Quindi una terzietà minima serve. Dentro
questo processo penso che accanto ai professori servano anche figure
riconosciute per le loro abilità professionali. Ma anche su
quest’aspetto servirebbe un intervento legislativo. Le faccio un
esempio: in Svizzera, siccome l’apprendistato è una cosa seria e solo se
hai fatto l’apprendista puoi fare quel mestiere, per poter prendere un
apprendista devi avere nell’organizzazione una persona validata dallo
Stato come maestro del lavoro; cioè, non solo è perito nella sua materia
ma ha fatto un corso di 100 ore su come si gestiscono gli apprendisti e
come si fa loro il tutoraggio e certifica gli apprendimenti in azienda;
diciamo che segue l’apprendista a 360 gradi. Questo è un esempio
mutuato dall’apprendistato, ma dovremmo pensare anche ad avere nelle
organizzazioni cose di questo tipo; abbiamo bisogno di pensare a un
sistema di apprendimento che abbia vari punti di controllo.
Mi preme poi ricordare l’importanza della definizione di standard
centrali che si pongano come guida per i diversi territori e siano in
grado di contenere i rischi di proliferazione dei repertori di
qualifiche. Infine ci sarebbe bisogno di un serio lavoro per concretare
l’idea di azienda come luogo di formazione (il Ministero l’ha spesso
citato, ma non l’ha fatto) qualificando il personale interno e portando a
trasparenza i processi. Bisogna rivedere il sistema della formazione
continua e della formazione permanente per renderle più integrabili e
anche per qualificare gli operatori su questo mercato; un altro dei
problemi che noi abbiamo oggi è che uno si sveglia la mattina, va in
Camera di Commercio e mette in piedi una società di formazione. Poi
giustamente il datore di lavoro dice “sì, questi mi hanno certificato che quello sa fare la cosa, ma loro chi li certifica?”.
In Regione Lazio abbiamo ancora ad esempio 1100 società di formazione
certificate, quindi bisogna fare un po’ di ordine. Un po’ di ordine
bisogna proprio farlo.
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