martedì 14 maggio 2013

Validazione e certificazione degli apprendimenti. Intervista ad Amarildo Arzuffi , responsabile area formazione Fondimpresa.

Da sempre la certificazione delle competenze dei lavoratori è una questione prioritaria all'interno del mondo del lavoro. Chi certifica chi e cosa.
Sul tema si sono e continuano a confrontarsi aziende, sindacati ed esperti.
In questa intervista, Amarildo Arzuffi, responsabile dell'area formazione di Fondimpresa (Fondo per la formazione continua, costituito da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil) esprime il suo condivisibilissimo punto di vista, che gli deriva dall'osservatorio privilegiato che occupa.
(Intervista di Pierpaolo Letizia)

Le biografie di lavoratori e imprese sono ricche di eventi critici in cui il cambiamento è scaturito da una tensione tra il sogno di intraprendere un determinato percorso di crescita e il realismo dettato dalle circostanze e dagli strumenti di valutazione a disposizione. La casistica è ampia: c’è il giovane manovale che non vuole fare per tutta la vita questo mestiere, c’è l’ingegnere rimasto disoccupato perché per dieci anni ha fatto solo lo stesso prodotto per un’azienda che non si è rinnovata e ha chiuso i battenti. Ci sono imprese, che pur nella grave crisi economica, non riescono a trovare lavoratori qualificati per professioni e mestieri artigianali e di alta qualificazione.
Centrale, nei principali documenti di programmazione europei e nazionali, è l’idea di un mercato del lavoro mobile, ma in senso virtuoso, in cui tra lavoratori e imprese è facile incontrarsi grazie al supporto di meccanismi di controllo e regolazione della mobilità.
La qualifica, è questa la parola magica, è ritenuta artefice in gran parte del buon esito dell’incontro tra lavoratori e imprese. Ciò nonostante, il dibattito di cui è stata oggetto negli ultimi 20 anni ne ha indebolito il senso. I suoi elementi costitutivi, spesso riassunti nei concetti di apprendimento e competenza, sono stati oggetto di accesi dibattiti, tanto nell’arena scientifica quanto in quella istituzionale, dai quali sono proliferati significati e interpretazioni. Una situazione che ha contribuito a produrre criteri di validazione e certificazione delle “competenze” dei lavoratori eterogenei, diffusi in modo non uniforme sul territorio e non validi in tutto il paese, pertanto ignorati dagli stessi interessati (lavoratori e imprese).
La crisi del lavoro e della formazione da 20 anni è crisi di sistema: il mondo corre e l’Italia è ferma, non è flessibile, è ingessata dalla burocrazia e dal conservatorismo. Ci sono delle eccellenze, il sistema produttivo italiano che tira è quello che ha investito, ha innovato ed esporta su tutti i mercati, mentre le aziende dipendenti solo dai consumi interni soffrono e falliscono per le loro scelte localiste. C’è un rapporto difficile, quasi senza speranza, tra regioni, istruzione, università e le imprese per formare e riformare professionalmente i lavoratori.
Entro il 2050 il mondo, soprattutto l’area BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) raddoppierà i suoi abitanti mentre il Belpaese vedrà un aggravamento della crisi demografica, di qui la necessità di prendere delle contromisure. Di tutto questo, delle “certificazioni”, parliamo con Amarildo Arzuffi, responsabile dell’Area Formazione di Fondimpresa.
Ormai da molti anni si parla di validazione e certificazione, e le esperienze a tale riguardo sono state molte. Ciononostante, soprattutto nel contesto italiano, si assiste all’incapacità di portare a sistema queste esperienze dando vita a dei meccanismi stabili di validazione e certificazione. Tanto più quando si parla di apprendimenti non formali ed informali.
Intanto mi accontenterei di avere qualche meccanismo di certificazione delle competenze formali. Per questioni di tipo costituzionale e strutturale questo paese è un paese a federalismo mancato, dove oltre dieci anni fa si è dato pieno mandato alle autorità regionali in questa materia, non coordinando tra l’altro le politiche di formazione e di istruzione (altro grande problema perché non riusciamo a pensare a un sistema complessivo dell’education, ma pensiamo a canali scollegati). Questa assunzione di poteri da parte delle regioni non ha prodotto, se non a macchia di leopardo, alcun risultato.
È importante chiedersi quanto un sistema decentrato possa rispondere alle esigenze del paese. Ad esempio, in tema di certificazione ho partecipato a un focus nella provincia di Bolzano la quale, nonostante sia una provincia che funziona bene e spende bene, non ha un repertorio delle competenze, quindi non può procedere ai processi certificativi. Si poneva, quindi, il problema di un repertorio delle competenze, cosa splendida, ma magari un po’ in ritardo. Il problema è: ci serve l’ennesimo repertorio delle competenze della provincia di Bolzano?
Il problema dell’Italia è che ha una quantità troppo significativa di forza lavoro dequalificata, un corpo intermedio troppo stretto rispetto alle esigenze della modernità e anche tanti laureati con lauree poco interessanti. Il primo problema è come far crescere qualifiche bassissime, il secondo è come favorire il riciclo delle qualifiche alte oggi non utili sul mercato del lavoro. Le faccio un esempio più calzante: in questo periodo abbiamo situazioni di ingegneri a elevata professionalità che sono stati in azienda per molti anni e semplicemente quell’azienda è venuta meno perché è venuto meno quel tipo di prodotto su cui lavoravano o il mercato di riferimento. Abbiamo bisogno di riposizionare questa forza lavoro. Una volta gli ingegneri erano i manager, oggi sono i quadri, gli impiegati. Anche qui, con gli strumenti tradizionali della formazione professionale regionale dove vado? Anche se avessi un quadro delle qualifiche ho bisogno di pensare a meccanismi che si incardinino anche alle istituzioni e a titoli di studio ufficiali.
Ricapitolando, ci troviamo innanzi a tre problemi. Il primo problema riguarda la portata complessiva del sitema: visto che abbiamo perso vent’anni sarebbe opportuno iniziare a pensare un sistema di validazione/certificazione con schema ampio, che tenga in considerazione anche il sistema dell’istruzione, non solo la formazione professionale, favorendo in tal modo i passaggi tra le due sfere. Il secondo problema è rappresentato dalla necessità di definire un repertorio nazionale di base delle professioni (perché con questo sistema regionalizzato non si può più andare avanti); terzo problema, bisogna avviare una politica dei servizi: tutto il paese è strutturato intorno a un welfare passivo, le discussioni di questi giorni sono relative alla riduzione del welfare passivo, ma di politiche di welfare attivo non se ne vedono.
Dall’esame di 55 casi di validazione/certificazione da noi condotta nel progetto SAVing è emersa una discreta confusione sul piano terminologico: spesso nelle diverse esperienze esaminate si sovrappongono i termini di validazione e certificazione, li si usa quasi a livello di sinonimi.
Anche io avrei difficoltà oggi ad usare in maniera tecnica questo tipo di terminologia perché la sua declinazione, che c’è in letteratura ed è svariata, diventa tecnica nel momento in cui c’è un richiamo legislativo che la concreta.
Quindi secondo lei c’è una carenza a livello di indirizzi?
Dobbiamo tenere presente che stiamo parlando di cose che non ci sono, e che sono tradotte dall’inglese piuttosto che dal francese. Un mio amico psicologo del lavoro dice che fraintendersi è un modo per imparare. Però il problema è che su questo tema ci fraintendiamo molto perché parliamo di una cosa che non c’è, quindi si finisce con il riferirsi alla stessa cosa utilizzando termini diversi.
È come il problema della confusione enorme che c’è in Italia tra formazione continua ed educazione degli adulti. Essendo tutti e due degli oggetti limbo, spesso chi se ne occupa tende a metterli insieme. Sono due cose completamente differenti in letteratura e, aggiungerei, più o meno differenti anche in relazione al contesto in cui sono messe in pratica. In Inghilterra, dove c’è un sistema totalmente diverso dal nostro, il confine tra queste due realtà è molto lasco, e ciò dipende da come è strutturato il metodo di riconoscimento delle competenze inglese; mentre in Francia dove sono cartesiani hanno separato i canali anche se con possibilità di contatti. Ma la definizione esiste quando esiste un oggetto; il problema è che non abbiamo oggetti concreti, e quindi è molto facile che io parli di una cosa e lei ne intenda un’altra.
Quindi, a suo avviso, quali sono le differenze principali tra validazione e certificazione?
Intanto io parlerei di certificazione quando ci sono elementi terzi, e la terzità sia anche concretata da un organismo terzo e statale. Il processo di validazione a mio giudizio è un processo di tipo negoziale. Questo può avvenire all’interno delle singole imprese e ha il pregio di essere più elastico e di poter individuare oggetti che possono sfuggire ai repertori, però fuori da questo “negozio” il rischio è di non poter vendere il prodotto (ad esempio la competenza del lavoratore) perché non esiste un criterio in grado di visibilizzarne le caratteristiche. Processi di validazione interni possono apportare valore nella certificazione, ma non bastano perché temo possa prevalere la logica negoziale delle parti su un’oggettiva validazione di parte terza. È chiaro che anche nella parte terza possono nascondersi problemi e difetti sul piano dell’attuazione della propria attività (irregolarità, inadempienze e quant’altro); però il sistema l’hai costruito e quella persona di mestiere fa il certificatore con tutto ciò che comporta anche in termini di responsabilità. È importante definire etichette utili per descrivere che cosa sanno fare le persone; ma le etichette hanno un valore quando qualcuno le può controllare, ovvero quando c’è un certificatore.
Però questa etichetta, che certifica rispetto ad uno standard, mi sembra che diventi ancora più complessa da gestire quando si parla di non formale e informale. Lì a suo avviso è possibile definire degli standard? O comunque, qual è il criterio di certificazione?
Qui abbiamo bisogno di capire quale è la finalità della certificazione. Le faccio un esempio: il più banale e vecchissimo strumento che in questo paese una volta esisteva e adesso non c’è più, ovvero l’accertamento di qualifica. Prima del sovrapporsi di queste riforme del mercato del lavoro uno poteva andare all’ufficio di collocamento e chiedere un accertamento di qualifica, si riuniva una commissione che aveva il compito di riconoscere tale qualifica sulla base di capolavori (in questo caso stiamo parlando di tornitori), di prove tecniche e di competenza generale. Si trattava di una forma molto antica, se vuole, di accertamento di competenze acquisite in luogo di lavoro.
Quindi anche sulla base di dinamiche informali?
Cosa bisogna sapere per avere una qualifica? Ad esempio, io lavoratore svolgo da tanti anni questo lavoro, non ho fatto i corsi, vengo, faccio le prove e passo gli esami. Esami da privatista, chiamiamoli così. Un tempo funzionava così; e riceveva almeno la qualifica. Ora è una prassi scomparsa.
Altro esempio è quello francese dei centri di bilancio di competenza, dove uno decide che da pasticcere vuole passare a fare il parrucchiere. Lì certificano le competenze che compongono la sua professionalità, che sono traslabili in un percorso di formazione per fare il parrucchiere: ad esempio il rapporto con la clientela o una serie di competenze nella gestione delle relazioni. E in caso gli prescrivono invece il passaggio formativo obbligatorio per poter raggiungere quella qualifica professionale. Una sorta di sistema dei crediti, che potrebbe andare bene nel sistema professionale ma anche nel sistema dell’istruzione tecnico superiore o in quello dei crediti universitari. Stiamo parlando però ancora di competenze legate al lavoro. Un’altra cosa sono alcune competenze, queste molto più complicate, di tipo organizzativo o relazionale, apprese fuori dai luoghi di lavoro; ma anche lì esistono delle technicality. Per esempio io conosco molto meglio, perché ci ho lavorato anni fa, il sistema francese: esistono dei modi per definire quel tipo di competenza e riconoscerla in un percorso professionalizzante.
Torno a dire, il tema è a cosa ci serve la certificazione. A mio parere la certificazione dovrebbe servire non da curriculum, perché rischiamo di trasformarci in un paese spagnoleggiante del ‘500; dovrebbe invece servire proprio per raggruppare le competenze, ordinarle, completarle e portarle poi a una certificazione di sintesi, a una qualifica.
Il rischio potrebbe essere una deriva credenzialista?
Noi siamo bravissimi a fare il barocco, insieme alla Spagna; ma dobbiamo evitarlo. Deve essere ben chiaro dove porta il processo certificativo. Non alla produzione di carta. È anche per questo che servono dei criteri nazionali in cui inquadrare le competenze, perché il rischio che dalla Sicilia alla Val d’Aosta si creino dei repertori barocchi è meraviglioso.
Chi è il beneficiario ultimo di un sistema di validazione e certificazione?
In un mercato del lavoro come quello odierno ci sono tre tipi di beneficiari: uno è l’impresa nell’acquisizione di forza lavoro, nel senso che tutto questo dovrebbe consentire un migliore incontro di domanda-offerta, con la possibilità per l’impresa di ridurre (perché non sono abbattibili) i costi inevitabili dell’inserimento della forza lavoro (perché ha trovato una persona che è skillata il più possibile in linea con le sue esigenze). Il sistema può quindi abbattere il costo del recruitment, consentendo di individuare meglio ciò di cui ha bisogno. Il secondo beneficiario è il lavoratore. Un sistema di validazione e certificazione è un elemento di libertà per il lavoratore. Vedersi riconoscere le proprie competenze significa anche apprezzarsi in un mercato del lavoro complicato, e saper riconoscere cosa fare per migliorarsi, ma anche saper valutare il proprio valore e muoversi in quel mercato. Infine c’è il cittadino consumatore finale, che sarebbe maggiormente tutelato in un sistema in cui fossero visibili e trasparenti le competenze presenti in ambito aziendale; per riconoscere le organizzazioni di qualità che sono in grado di dare prodotti o servizi di qualità è importante vedere anche chi ci lavora. Quindi un’organizzazione che mette in trasparenza le sue competenze interne e le dichiara secondo me è un elemento di tutela del cittadino consumatore.
Parlando nello specifico del lavoratore mi sembra quindi che lei veda un valore economico della certificazione, cioè la certificazione è uno strumento attraverso il quale il lavoratore può dare maggior peso e spessore alla sua spendibilità sul mercato.
Sì, ma non solo questo. La certificazione può essere un modo per influire sulla dimensione economica, ma anche sulla consapevolezza di sé. La formazione diventa anche un metodo per capire quello che devi fare se vuoi cambiare: da questo punto di vista è la trasformazione dell’adolescente in adulto. A volte abbiamo situazioni di persone che fanno lavori spiacevoli o che comunque loro non amano; cambierebbero per fare altro, però non sanno come fare perché non sono in grado di capire come farlo. E passano la vita nella speranza di cambiare. Se io invece avessi un posto dove mi dicono: “tu sai fare queste cose, ti aiuto a pensarci, per fare quelle altre cose devi imparare queste; forse è un sogno impossibile quindi cambia sogno perché altrimenti ti rovini la vita, o forse è possibile ma devi fare questi sacrifici per farlo”. Secondo me questo è un passaggio dall’adolescente all’adulto. È un servizio utile, professionale e culturale. Io non vedo la certificazione come un prodotto, ma come un processo. Inoltre non userei il termine cambiamento perché presuppone sempre percorsi gerarchici verticali, ci possono essere anche desideri di persone che vogliono fare spostamenti orizzontali; dobbiamo iniziare a pensare anche carriere orizzontali, non reggiamo più con questo mondo pensato solo sulle carriere gerarchiche.
A suo avviso la certificazione ha un valore diverso in relazione al tipo di categoria occupazionale? Cioè, abbiamo delle categorie di soggetti che potrebbero beneficiarne mentre per altri in sostanza potrebbe essere indifferente la presenza o meno di certificazione?
Si, nel nostro paese non abbiamo grandi meccanismi di certificazione e quel poco che c’è interessa le fasce medio alte del mercato del lavoro. Ciò dipende dal fatto che siamo una delle società più statiche dal punto di vista della mobilità sociale dell’occidente capitalista.
I sistemi di certificazione sono un metodo utile (insieme a molti altri, ovviamente) per rispondere a un’idea di paese e di sistema che si ha in testa. In un sistema in cui il mio problema è mantenere una statica sociale e non favorire la mobilità sociale, un sistema di certificazione non mi serve. Se io infatti certifico che una persona fa il manovale carpentiere e gli dico anche che lo dovrà fare per tutta la vita, lì siamo a un’abilitazione di ingresso, tipica dell’apprendistato in svizzera, molto valido, però poi a quel punto posso pensare solo a dei meccanismi di validazione quasi contrattuali per consentirgli di incrementare il suo reddito in quella posizione per tutta la vita. Il problema del sistema di certificazione è legato a un’idea di società che ha, se non come effettività, almeno come potenzialità una sorta di mobilità sociale, trasversale, verso l’alto e professionale. La certificazione, invece, mi serve se esco dall’idea che uno faccia il carpentiere tutta la vita. Allora devo iniziare a pensare a come intervenire su di lui perché se fra dieci anni non gli ho fatto fare altro che questo non posso che rottamarlo. Quindi inizio a tenerlo con un piede legato in un sistema di educazione; allora lì sì che mi serve la certificazione. Una società statica non ha bisogno di formazione continua; se si immagina una società in cui chi sta sotto non deve avere neanche una possibilità di salire non servono certificazioni. Porsi il problema della certificazione vuol dire porsi la possibilità di un minimo di mobilità sociale e professionale. In quel caso può servire a tutti.
Ragionando più in generale sul mercato del lavoro, in che modo un sistema di certificazione può favorire il matching tra domanda e offerta?
In parte la risposta è inclusa in ciò che abbiamo già detto in precedenza. Sul fronte delle imprese un buon sistema di certificazioni potrebbe ridurre i costi d’inserimento (riducendo i tempi necessari per individuarla e fornendo delle garanzie su ciò che mi posso aspettare da quella persona in base alla sua certificazione, io sarò infatti alleggerito dei costi di ricerca e prova legati all’inserimento in azienda); per il lavoratore, invece, la certificazione (ma soprattutto l’iter necessario per conseguirla – come le ho già detto considero la certificazione soprattutto come un processo) può contribuire a chiarirgli i propri orizzonti professionali consentendogli di intraprendere il giusto percorso di crescita prima e con meno rischi di errore (“io so tanto, io so poco, in quel campo lì sono l’unico, posso farmi pagare bene, posso farmi pagare male”).
Esiti di questo tipo, tuttavia, presuppongono che esista un sistema di servizi per il lavoro. Il che, a sua volta, non può prescindere da una più ampia e accurata riforma del mercato del lavoro che è sempre più urgente considerando i mutamenti strutturali che stanno investendo il nostro paese. Due tra tutti: da qui a dieci anni il nostro paese sarà investito da grandi rivoluzioni demografiche. Laurence C. Smith immagina che, in un mondo che avrà quasi due volte la popolazione attuale nel 2050, l’Italia sarà investita da una marcata decrescita demografica, al lordo del saldo degli immigrati che arriveranno. Abbiamo, dunque, il problema di un paese che non ha più giovani, dove sarà sempre più necessario tenere al lavoro gli anziani e inserire gli immigrati. Accanto a ciò il lavoro tende purtroppo a diventare sempre più mobile. Pur non essendo un esegeta della modernità non posso non prenderne atto. Prima della crisi un mio amico ha condotto un lavoro sulla mobilità professionale in Romagna consultando 5 annualità di movimenti negli archivi informatizzati regionali. I dati evidenziavano che in 5 anni l’80% dei lavoratori (articolo 18 vigente) aveva cambiato posto di lavoro, cioè in un periodo non di crisi e in una regione ricca. Ciò significa che ormai la mobilità professionale è una condizione che fa parte della natura del paese.
Siamo quindi in una situazione in cui è necessario un sistema in grado di supportare gli attori del mercato nella gestione di dinamiche più complesse di quanto non fossero prima, soprattutto supportarli nel cambiamento dei loro percorsi lavorativi. Strumenti per aiutarli a capirsi e a capire i propri interlocutori, per decidere se e come riformulare i propri percorsi di crescita e sviluppo. Non credo debba essere un sistema statale, può essere anche gestito come nella regione Lombardia in accordo con le società interinali che fanno un servizio pubblico ma sono soggetti privati, però bisogna costruire servizi per il lavoro.
L’impressione che ho avuto, nel progetto SAVing e in altre indagini che abbiamo condotto negli ultimi anni, è di una sostanziale sfiducia da parte delle imprese nella possibilità di un certificatore. Ricorrenti sono espressioni quali “la persona la scelgo io basandomi su una serie di segnali e indicatori che valuto io internamente”. È come se ci sia una sostanziale sfiducia nell’accogliere un soggetto che ha una certificazione.
Qui siamo di fronte a due situazioni diverse: i piccoli imprenditori possono avere questo tipo di approccio: “io conosco gli uomini; so io cosa mi serve; io non certifico niente perché poi il lavoratore vuole più soldi, o se ne va”. Si tratta di un approccio miope. Il lavoratore che è capace, se si accorge di essere capace se ne va se non lo paghi o se non gli dai i riconoscimenti; quindi i bravi li perdi, e in più svaluti le persone che hai in casa perché non le fai crescere. E alla fine queste cose le paghi. E questo è uno dei grandi problemi della piccola impresa del nostro paese. Sulle grandi le cose stanno cambiando. L’ho visto nella mia esperienza qui a Fondimpresa: per anni, nel dibattito interno, abbiamo avuto difficoltà a far passare la parola certificazione, perché Confindustria temeva i possibili risvolti negativi di cui abbiamo già parlato (rigidità degli imprenditori a causa dell’accresciuto potere contrattuale dei lavoratori certificati). Ad un tratto c’è stata la “ribellione” delle grandi e soprattutto delle PMI, quelle vere, che hanno rifiutato questo stereotipo poiché, per i loro sistemi interni di qualità, hanno bisogno di dimostrare che fanno formazione e che certificano i lavoratori. Queste aziende hanno capito che per andare sui mercati internazionali devono essere certificate, che non bastano politiche di prezzo, che vengono richiesti ormai standard di qualità che investono anche tutte le politiche del personale, tra le quali rientra la formazione. Quindi la certificazione può essere uno strumento competitivo. Ma ribadisco che, tre anni fa, si è riusciti a sbloccare questa parola d’ordine e ad introdurla nei bandi solo grazie a questo pezzo del mondo delle imprese, che è quello che va sui mercati internazionali, che si è reso conto del vantaggio competitivo che rappresenta. Il problema è che si trovano ancora forti resistenze nelle organizzazioni che non sono esposte ai mercati internazionali.
In generale la piccola e la micro impresa, e l’artigianato, rappresentano una dimensione imprenditoriale che rischia di andare tutta fuori mercato. Oramai per andare sul mercato devi avere una rete di consulenti finita, composta dall’esperto di export, dall’avvocato, dall’esperto di banche, dal commercialista, ecc… rischiando così di avere più consulenti che dipendenti. Per governare una rete di consulenti come quella però, e non farsi depredare e perdere, è necessario che il livello imprenditoriale sia molto alto e difficile da gestire. Per tanti anni abbiamo considerato questo tessuto di piccole e micro imprese come il futuro del paese; oggi il mondo è cambiato, e ritengo che siano invece un peso per il paese. Credo che usciremo da questa crisi con molte di quelle imprese non più in piedi. Non è un bell’auspicio, perché è un problema di ristrutturazione generale del paese.
Sulla base delle sue esperienze saprebbe citare degli esempi di metodologie di certificazione che hanno sortito un effetto positivo?
Le faccio un esempio semplicissimo: un progetto dell’Università Roma Tre, coordinato dalla professoressa Alberici. Sono stati bravi perché hanno utilizzato una strategia molto efficace. Hanno inserito nello statuto dell’università un sistema di riconoscimento dei crediti di accesso all’università che funzionava in questo modo: il lavoratore accedeva ai crediti passando attraverso un laboratorio di accertamento delle competenze, certificato in conformità a uno standard francese e legalmente riconosciuto in quel paese. Hanno introdotto, quindi, nello statuto dell’università la possibilità di riconoscere i crediti rilasciati da questo centro, certificato secondo la legislazione francese, e poi hanno rivolto questa procedura di certificazione a una tipologia di studenti specifica: i diplomati lavoratori della PA che per accedere ai concorsi interni per titoli ed esami avevano bisogno della laurea. Ad oggi, Scienze della Formazione a Roma Tre ha quasi il 50% degli iscritti che sono studenti lavoratori, ultra trentenni che stanno completando il ciclo di studi. Questo meccanismo, che è di certificazione passerella, è secondo me estremamente interessante.
In questo caso però loro hanno fatto riferimento a uno standard esterno.
Per forza, non avendo uno standard a disposizione il loro laboratorio si è rifatto alla legislazione francese dal momento che in Italia non abbiamo fatto una legislazione sui centri per il bilancio delle competenze.
Ma a suo avviso questo meccanismo potrebbe essere importato e applicato su più ampia scala in Italia?
Si tratta sicuramente di un esempio circoscritto alla sfera dell’education. In Europa c’è una legislazione e degli strumenti che rendono omogenei i titoli di studio [n.d.r. il Framework europeo e le codifiche ISCED]. L’università, quindi, può accettare studenti con titoli di studio e certificazioni di altri paesi. Di certo non è un esempio automaticamente applicabile al mondo del lavoro. In questa sfera un altro problema rilevante è rappresentato dalla diffidenza che molti datori di lavoro nutrono in sistemi di certificazione presidiati prevalentemente dai professionisti dell’istruzione, soprattutto dai professori. Io credo sia necessario un passo ulteriore: immaginare dei modelli di certificazione istituzionale che acquisiscano obbligatoriamente validazioni da parte di persone che non sono professori nè pubblici ufficiali, ma datori di lavoro, capi reparto, ecc. In Francia lo fanno. Si può introdurre in un programma di certificazione anche questo, cioè il fatto che la certificazione sia il timbro finale al fatto che il lavoratore abbia acquisito una serie di conoscenze e competenze le quali possono essere rilasciate anche da soggetti competenti della materia riconosciuti dalle associazioni industriali locali. La cosa che non possiamo fare è trasformare il processo di certificazione in un sistema di referenze, per il quale alla fine di un’esperienza lavorativa il datore di lavoro ti scrive che sei stato bravo, e vieni assunto. La certificazione non può dipendere dall’umore del singolo datore di lavoro, perché in questo caso non ci sarebbero più diritti individuali.
Quindi, sulla base dello scenario che ha disegnato, qual è la possibilità in Italia di arrivare a degli standard di validazione e certificazione?
Mi auguro che finita questa ondata di trasformazione istituzionale, con la prossima legislatura, anche su pressioni europee, il governo obblighi le regioni e il MIUR a produrre strumenti che siano almeno al passo con quanto ci chiede l’Europa. Pensi che in materia di formazione continua l’ultimo intervento di un qualche valore l’ha fatto Maroni nel 2003, istituendo i Fondi sulla base dell’accordo di Natale di D’Alema nel 1999; sono passati dieci anni e non c’è un atto parlamentare. Nessuno ha pensato di rivisitare in qualche modo il tema della formazione continua? In dieci anni è cambiato il mondo. Quindi noi ci dovremmo arrivare perché ce lo chiede l’Europa e avremmo bisogno intanto di atti di governo.
Certo non si può che apprezzare lo sforzo del Ministro (n.d.r. Elsa Fornero), che sul tema delle validazioni e certificazione ha tentato un esercizio necessario di scrittura di alcuni canoni. A inizio settembre 2012 è stato varato il regolamento per il funzionamento del sistema di educazione degli adulti e sono state anche individuate risorse per attivarlo. Si stanno facendo alcune esperienze di qualche livello, quindi qualche segnale c’è. Trovo però che questo schema proposto sia neoistituzionalista e pensato soprattutto sull’offerta pubblica dell’istruzione; non c’è un’idea complessiva di education, ma c’è più che altro un’idea di scuola. E francamente è questo il punto debole, perché mentre il sistema dell’istruzione può affrontare l’esigenza dell’ingegnere elettronico che deve diventare ingegnere gestionale, sulle basse qualifiche andare a parlare di un sistema scuolacentrico è un errore. Si tratta di persone che sono scappate dalle scuole e non ce le riporteremo mai. Quindi rischiamo di escludere la fascia più debole della popolazione di cui parlavo prima, che sarà anche il nodo critico del paese nei prossimi anni. Non è solo un esercizio compassionevole occuparsi degli ultimi; il problema è che non possiamo reggere un tasso di disoccupazione così elevato nei ceti medio-bassi perché ciò comporta dei costi sociali altissimi. Quindi cercare di aumentare la capacità di stare sul mercato del lavoro è un’operazione che ha una sua importanza anche dal punto di vista economico, oltre che morale.
In definitiva, intorno a quali soggetti dovrebbe strutturarsi un sistema di validazione e certificazione?
Io continuo a dire che l’atto finale non è di tipo negoziale ma è di tipo certificativo, e quindi a mio giudizio va affidato a un soggetto terzo; è una funzione pubblica. Poi questa funzione pubblica la può esercitare anche un privato accreditato presso lo stato o uffici statali, però quello è il punto di arrivo. Non credo in un processo tutto bilaterale della validazione delle competenze perché debole per i motivi che le dicevo: o tende allo scambio politico o, se una delle due parti è troppo forte, tende all’imposizione. Quindi una terzietà minima serve. Dentro questo processo penso che accanto ai professori servano anche figure riconosciute per le loro abilità professionali. Ma anche su quest’aspetto servirebbe un intervento legislativo. Le faccio un esempio: in Svizzera, siccome l’apprendistato è una cosa seria e solo se hai fatto l’apprendista puoi fare quel mestiere, per poter prendere un apprendista devi avere nell’organizzazione una persona validata dallo Stato come maestro del lavoro; cioè, non solo è perito nella sua materia ma ha fatto un corso di 100 ore su come si gestiscono gli apprendisti e come si fa loro il tutoraggio e certifica gli apprendimenti in azienda; diciamo che segue l’apprendista a 360 gradi. Questo è un esempio mutuato dall’apprendistato, ma dovremmo pensare anche ad avere nelle organizzazioni cose di questo tipo; abbiamo bisogno di pensare a un sistema di apprendimento che abbia vari punti di controllo.
Mi preme poi ricordare l’importanza della definizione di standard centrali che si pongano come guida per i diversi territori e siano in grado di contenere i rischi di proliferazione dei repertori di qualifiche. Infine ci sarebbe bisogno di un serio lavoro per concretare l’idea di azienda come luogo di formazione (il Ministero l’ha spesso citato, ma non l’ha fatto) qualificando il personale interno e portando a trasparenza i processi. Bisogna rivedere il sistema della formazione continua e della formazione permanente per renderle più integrabili e anche per qualificare gli operatori su questo mercato; un altro dei problemi che noi abbiamo oggi è che uno si sveglia la mattina, va in Camera di Commercio e mette in piedi una società di formazione. Poi giustamente il datore di lavoro dice “sì, questi mi hanno certificato che quello sa fare la cosa, ma loro chi li certifica?”. In Regione Lazio abbiamo ancora ad esempio 1100 società di formazione certificate, quindi bisogna fare un po’ di ordine. Un po’ di ordine bisogna proprio farlo.

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